ANGINA PECTORIS

Il termine angina pectoris (dal latino, “dolore di petto”) indica un’affezione caratterizzata da un dolore localizzato al petto e descritto tipicamente come un peso, una morsa, una costrizione, di intensità variabile, spesso in relazione con uno sforzo fisico e alleviato dal riposo o dall’assunzione di farmaci specifici (nitrati). Questo dolore si presenta quando il cuore […]



Il termine angina pectoris (dal latino, “dolore di petto”) indica un’affezione caratterizzata da un dolore localizzato al petto e descritto tipicamente come un peso, una morsa, una costrizione, di intensità variabile, spesso in relazione con uno sforzo fisico e alleviato dal riposo o dall’assunzione di farmaci specifici (nitrati).

Questo dolore si presenta quando il cuore non viene sufficientemente rifornito di ossigeno. Il cuore è infatti un muscolo che lavora moltissimo (deve pompare ogni minuto 5-6 litri di sangue nei polmoni e altrettanto nel resto del corpo) e consuma quindi una grande quantità di energia e di ossigeno, che gli vengono riforniti attraverso le arterie coronarie.

Quando il muscolo cardiaco (detto anche miocardio) non riceve a sufficienza ossigeno e zucchero, si realizza una condizione definita ischemia con comparsa di dolore al petto, e nota appunto come angina pectoris.

Il dolore è più spesso localizzato alla parte centrale anteriore del torace (regione retrosternale), ma può essere irradiato alle braccia, al collo, posteriormente nella regione dorsale o nella regione alta dell’addome (epigastrio). Usualmente compare in seguito a uno sforzo fisico, ma a volte può presentarsi anche a riposo.

Il dolore anginoso è più intenso se l’ambiente è freddo: uno sforzo che non produce sintomi d’estate può scatenare l’angina d’inverno.

Anche un pasto abbondante può facilitare la comparsa dell’angina. Infatti il sangue viene richiamato durante la digestione verso l’intestino rendendosi meno disponibile verso le coronarie e quindi verso il muscolo cardiaco.

L’angina pectoris costituisce quasi sempre la manifestazione della cardiopatia ischemica, la più diffusa malattia cardiovascolare che insorge quando sulla parete interna delle arterie coronarie (endotelio) si formano placche arteriosclerotiche che ne determinano un restringimento del lume, con conseguente ostruzione al flusso del sangue e quindi alla portata di ossigeno al miocardio. Queste “placche” sono costituite da materiale vario (colesterolo, trigliceridi, calcio) che si deposita sulla parete delle arterie e, attraverso una complessa serie di eventi, finisce per danneggiarle gravemente. Dopo essersi formata accresce di continuo se le condizioni che l’hanno creata non vengono corrette e può andare incontro a ulteriori e più rilevanti fenomeni, quali la rottura e la trombosi, da cui deriva l’occlusione più o meno completa del lume dell’arteria.

È proprio il progressivo restringimento del lume che causa la riduzione del flusso del sangue all’interno dell’arteria coronaria: un processo del tutto silente del quale l’individuo colpito non si accorge e non avverte alcun sintomo fintantoché il flusso ematico non raggiunge una “soglia critica”.

A quel punto il deficit di sangue, e quindi di perfusione di ossigeno, causa l’ischemia del miocardio e la discrepanza tra la richiesta e l’insufficiente apporto di ossigeno al muscolo cardiaco fa emergere il dolore anginoso.

Questo processo può essere graduale: in questo caso l’angina si manifesterà con il tipico dolore anginoso “da sforzo”. Altrimenti l’insorgenza è improvvisa, dovuta perlopiù alle complicanze sopra descritte (rottura di placca e trombosi coronaria) e allora si avrà un “attacco cardiaco”, più propriamente definito sindrome coronarica.

Si noti bene che l’angina è soltanto uno dei sintomi della cardiopatia ischemica. A volte l’ischemia cardiaca è asintomatica, cioè non si manifesta con alcun disturbo: è la situazione che si verifica sovente nei pazienti diabetici (che presentano peraltro molto frequentemente la cardiopatia ischemica); altre volte si manifesta con degli “equivalenti anginosi”, sintomi cioè che equivalgono come significato all’angina pectoris, in quanto indicano la sofferenza della circolazione coronarica anche in assenza del tipico dolore di petto: astenia, dispnea, palpitazioni.

In alcuni casi, infine, il primo sintomo di questa malattia può essere un infarto del miocardio o addirittura una “morte cardiaca improvvisa”. Più raramente può accadere che le coronarie siano normali, non presentando placche, ma che il paziente presenti comunque un’angina, che in questi casi viene scatenata da una contrazione (detta spasmo) della parete arteriosa, il cui lume quindi si restringe con conseguente riduzione anche rilevante del flusso di sangue.

Due condizioni di frequente riscontro possono far esordire l’angina pectoris: l’anemia o l’ipertiroidismo. La prima di per sé riduce l’apporto di ossigeno ai vari tessuti, e quindi anche al miocardio; la seconda aumenta il consumo miocardico di ossigeno. È tuttavia da sottolineare che difficilmente l’angina compare se le arterie coronarie non sono interessate dal processo aterosclerotico; l’anemia o l’ipertiroidismo svelano infatti una coronaropatia ischemica “sottosoglia”, che prima o poi si sarebbe manifestata comunque.

Condizioni di rischio per la cardiopatia ischemica Diverse malattie aumentano la probabilità di sviluppare una cardiopatia ischemica, e con essa le crisi anginose. Si tratta di condizioni molto frequenti, dette fattori di rischio: ipertensione arteriosa, diabete mellito, fumo, colesterolo elevato.

Altri fattori espongono a un rischio aumentato, anche se in maniera meno rilevante: vita sedentaria, obesità, fumo passivo, ipertrigliceridemia.

Sono infine maggiormente predisposti all’insorgenza di una cardiopatia ischemica i soggetti di sesso maschile (la donna ha le stesse probabilità dell’uomo di ammalarsi di cardiopatia ischemica solo dopo la menopausa)e quelli con una ricorrenza in famiglia di altre persone con lo stesso problema comparso al di sotto dei 50 anni.

La sindrome metabolica Di recente si è imposta all’attenzione una condizione clinica particolarmente grave che espone a un elevato rischio cardiovascolare. Si tratta della cosiddetta sindrome metabolica, un insieme di affezioni in cui sono presenti almeno tre delle seguenti condizioni: ipertensione arteriosa, diabete mellito (ma anche una semplice intolleranza ai carboidrati), obesità addominale (individuata da una circonferenza addominale nell’uomo di 102 centimetri o più e nella donna di almeno 88 cm), alterazione dei grassi del sangue (dislipidemie, bassi livelli di colesterolo HDL o ipertrigliceridemia).


Tipi di angina pectoris

Se ne distinguono tre tipi .

Angina stabile È la più comune forma di angina. Compare ogni qual volta il cuore supera la soglia di lavoro usuale e il deficit di perfusione (ossia di afflusso sanguigno) fa emergere il dolore anginoso. Scompare nel giro di pochi minuti col riposo o con l’assunzione di nitroderivati.

Angina instabile È una condizione di elevato rischio che va trattata in maniera intensiva perché può rapidamente sfociare in attacco cardiaco (oggi definito sindrome coronarica acuta, in sigla SCA). Consiste in un dolore anginoso di nuovo riscontro (insorto cioè da meno di 3 mesi) o nella variazione della modalità di comparsa di un’angina preesistente (per esempio, quando gli attacchi diventano più intensi o più frequenti).

Angina variante (angina di Prinzmetal) È la forma più rara (appena il 2% di tutte le forme di angina) in cui abitualmente il dolore si presenta a riposo. È spesso dovuta a uno spasmo coronarico (che può insorgere sia su arterie sane sia su arterie danneggiate dalla malattia aterosclerotica). Il dolore si presenta prevalentemente di notte o nel primo mattino.


Trattamento chirurgico

Quando la terapia medica dell’angina non è efficace (ciò può avvenire all’esordio, per la gravità dell’ischemia o anche dopo molto tempo, per esempio quando un’angina può destabilizzarsi per la progressione della malattia aterosclerotica o per la rottura di una placca), i farmaci risultano poco efficaci. In tali circostanze le coronarie presentano dei restringimenti (stenosi) critici (che comportano cioè una riduzione di almeno il 70% del flusso di sangue) o totali. In questi casi è utile effettuare un intervento detto di rivascolarizzazione che serve a rimuovere chirurgicamente la placca che occlude la coronaria. La procedura di rivascolarizzazione può essere effettuata secondo due metodi diversi che non si escludono tra loro, ma che anzi possono essere integrati.

Bypass aorto coronarico: si tratta di un intervento chirurgico che consiste nel posizionare una vena, prelevata generalmente dalla gamba del paziente, innestandola “a ponte” del tratto stenotico della coronaria, oppure nel trasporre l’arteria mammaria interna abboccandola a valle della stenosi. In entrambi i casi viene ripristinato un flusso ematico efficace nella coronaria e quindi il necessario apporto di sangue al miocardio.

Angioplastica coronarica transluminale percutanea (PTCA): un sottile catetere munito sulla punta di un minuscolo palloncino viene introdotto in un’arteria del braccio o della gamba. Da qui viene fatto risalire fino all’aorta e alle coronarie (sotto guida radiologica); giunto a livello del tratto ristretto dell’arteria coronaria, il catetere viene spinto fin dentro e oltre il restringimento colpevole dell’ischemia.

A questo punto viene ripetutamente gonfiato il palloncino finché non riesce a dilatare la zona interessata dalla placca, riaprendo il lume della coronaria e ripristinando un flusso di sangue adeguato. A volte la procedura viene completata col posizionamento di un minuscolo tubicino costituito da una “maglia” di materiale che assume la forma del condotto coronarico (il cosiddetto stent) mantenendo così dilatato il tratto appena disostruito: lo stent ha il compito di tenere pervio il vaso sanguigno e di impedire che le pareti collassino o si riformi precocemente una nuova placca.

Questa procedura chirurgica ha il vantaggio di essere molto meno invasiva rispetto al bypass, ma non può essere sempre effettuata su tutti i tratti dei tronchi arteriosi coronarici.

A volte è necessario intervenire nello stesso paziente con entrambi i sistemi di rivascolarizzazione: in alcuni tratti coronarici ove sarà possibile dilatare col palloncino, verrà eseguita la PTCA, in altri la particolare conformazione anatomica del tratto stenotico richiederà per forza l’intervento chirurgico col bypass.

Nuove modalità di intervento La rivascolarizzazione miocardica si avvale da qualche anno di tecniche minimamente invasive.

Minimally Invasive Coronary Artery Bypass Graft (MICABG) Consiste in un bypass effettuato attraverso un accesso al cuore mediante una incisione nella regione anteriore sinistra del torace di 8-10 cm, generalmente a livello del quarto spazio intercostale. Questo accesso “minitoracotomico” viene accoppiato alla tecnica VATS (Video Assisted Thoracic Surgery) e consente di trattare la coronaria anteriore sinistra discendente e i suoi rami. Il chirurgo non seziona le ossa della cassa toracica e al cuore vengono somministrati farmaci per ridurre la frequenza del battito. L’intervento avviene pertanto “a cuore battente” e non è necessario ricorrere all’uso della macchina cuore-polmone; non è applicabile però a tutti i pazienti: e rappresenta un’alternativa solo per un gruppo selezionato; le indicazioni e le controindicazioni di questa tecnica sono di pertinenza del cardiochirurgo. I principali vantaggi si sintetizzano nel miglior risultato estetico e nel più veloce recupero post-operatorio; il limite della tecnica (oltre l’applicabilità alla sola coronaria anteriore sinistra discendente) è soprattutto il numero di bypass che possono essere effettuati (1 o 2 al massimo).

Off-Pump Coronary Artery Bypass (OPCAB) Durante questa procedura il chirurgo apre il torace sezionando i segmenti ossei, tuttavia non viene adoperata la macchina cuore-polmone.

Analogamente alla procedura MICABG, vengono adoperati accorgimenti per ridurre i movimenti del cuore, che tuttavia continua a battere durante l’intervento; in questo modo il chirurgo può riparare anche 4 o 5 arterie innestando altrettanti bypass.

Robotic Assisted Coronary Artery Bypass (RACAB) Si tratta della tecnica più avanzata in cardiochirurgia: il chirurgo adopera un robot per applicare il bypass.

Il torace può essere aperto in maniera più o meno invasiva, ma non c’è contatto diretto col paziente, poiché il chirurgo effettua l’intervento agendo su di una interfaccia (videoscreen) a tecnologia estremamente avanzata.

In questo modo il bypass coronarico può essere effettuato col chirurgo che si trova in un luogo anche molto distante rispetto al paziente. [G.S.]