Mononucleosi infettiva

La mononucleosi è un’infezione causata dal virus di Epstein-Barr (EBV), parte della famiglia degli herpesvirus e uno dei più diffusi virus umani; l’infezione è nota anche come malatta del bacio, malattia di Pfeiffer o febbre ghiandolare. La mononucleosi è caratterizzata da una classica triade di sintomi: febbre, faringotonsillite e linfoadenopatia. Fu descritta per la prima […]



La mononucleosi è un’infezione causata dal virus di Epstein-Barr (EBV), parte della famiglia degli herpesvirus e uno dei più diffusi virus umani; l’infezione è nota anche come malatta del bacio, malattia di Pfeiffer o febbre ghiandolare. La mononucleosi è caratterizzata da una classica triade di sintomi: febbre, faringotonsillite e linfoadenopatia. Fu descritta per la prima volta come “febbre ghiandolare” nel 1889, mentre il termine mononucleosi fu coniato nel 1920 per descrivere una piccola epidemia tra sei studenti, i quali erano affetti da una sindrome che comprendeva febbre con linfocitosi e cellule mononucleate atipiche nel sangue periferico. La relazione con il virus di Epstein-Barr fu stabilita solo in seguito, quando un laboratorista che lavorava sul virus sviluppò la sindrome e gli anticorpi cosiddetti eterofili.

L’EBV è diffuso ovunque (è cioè ubiquitario) e viene trasmesso per contatto intimo tra una persona che elimina il virus e un soggetto suscettibile: la trasmissione avviene soprattutto attraverso la saliva (per questo si parla di malattia del bacio, anche se, più raramente, il contagio può avvenire per scambio di bicchieri o di utensili per l’igiene o per il pasto), mentre non è dimostrato il contagio per via aerea. La vita in comunità non espone a particolari rischi a meno che non vi siano contatti molto stretti. Il virus persiste nell’organismo tutta la vita e viene eliminato anche per molti mesi (fino a 18) dopo la guarigione o, saltuariamente, negli anni successivi.

L’EBV può essere isolato anche dalle secrezioni cervicali femminili e dal liquido seminale maschile. La grande diffusione del virus nella popolazione e la precocità della trasmissione è documentata dall’alta percentuale di soggetti in cui si possono trovare gli anticorpi contro il virus, che arriva al 90-95% tra gli adulti; già all’età di 4 anni, virtualmente il 100% dei bambini nei Paesi in via di sviluppo e il 25-50% di quelli dei Paesi industrializzati ha anticorpi contro il virus, e ciò testimonia la precoce acquisizione dell’infezione. L’infezione avviene infatti già nella prima infanzia e per lo più (90% dei casi) decorre senza alcun sintomo; al contrario, quando è acquisita nell’adolescenza o nell’età giovane adulta si manifesta in modo clinicamente evidente con la mononucleosi nel 35-50% dei casi.


Cosa accade dopo l’infezione

Dopo l’ingresso nell’organismo a livello del cavo orale e del faringe, il virus si moltiplica infettando i linfociti B nelle aree linfatiche orofaringee (per esempio le tonsille), quindi viene disseminato nell’organismo dai linfociti infettati; l’incubazione è di 4-8 settimane. L’infezione scatena una risposta anticorpale diretta contro il virus stesso e la produzione di anticorpi detti eterofili (che reagiscono contro globuli rossi di pecora e di cavallo) che vengono utilizzati nei test diagnostici. Le cellule B infettate talora producono anche anticorpi contro strutture proprie dell’ospite, responsabili di alcune manifestazioni o complicazioni della malattia. In circa il 10% dei pazienti gli anticorpi eterofili non vengono prodotti, e ciò fa sì che il test detto monotest o la reazione di Paul-Bunnell-Davidsohn risultino negativi. La risposta immunitaria, che consente di controllare l’infezione, non permette tuttavia di eliminare il virus: questo rimane latente per tutta la vita, con periodiche riattivazioni e saltuaria eliminazione nelle secrezioni orofaringee.


Segni e sintomi

I sintomi sono febbre, mal di gola con essudato tonsillare, edema delle tonsille e della faringe (talora tanto marcato da ostacolare la respirazione e la deglutizione), ingrandimento dei linfonodi; spesso si notano ingrandimento del fegato e della milza. L’esordio clinico può essere preceduto da malessere, cefalea e modesto rialzo termico. Raramente si verificano complicanze a carico del sistema nervoso (meningite, mielite, encefalite), del cuore (miocardite), del sangue (anemia emolitica, piastrinopenia); tranne in rarissimi casi, in cui coesiste un particolare difetto immunitario, la malattia non è letale. Una complicanza molto temuta è la rottura della milza, che si verifica in circa 1-2 casi su 1000, spesso in modo spontaneo e tipicamente nelle prime tre settimane di malattia; i sintomi caratteristici sono dolore e improvvisa anemizzazione. Non sono segnalati danni durante la gravidanza.

L’affaticamento può essere durevole e intenso, e protrarsi anche fino a sei mesi dopo la guarigione, che avviene in quasi tutti i casi nell’arco di 1-2 mesi. Tra le altre manifestazioni tipiche dell’infezione vi è una forma di eruzione cutanea (o esantema) che ha forma tipicamente a macchioline un po’ rigonfie (esantema maculo-papuloso) od orticarioide, più raramente petecchiale. L’esantema si verifica soprattutto in pazienti trattati con antibiotici della classe delle b-lattamine (penicillina, ampicillina, amoxicillina), nei quali si verifica nel 70-90% dei casi, ma è stato descritto anche in associazione ad altri trattamenti; occorre comunque ricordare che non è quasi mai dovuto a un’allergia verso i farmaci assunti.

Il virus stabilisce uno stato di latenza e di tolleranza con l’organismo; in alcuni casi (quasi sempre con il concorso di altri fattori, infezioni croniche o ripetute oppure deficit immunitari gravi) il virus può essere causa o concausa dell’emergenza di neoplasie quali il linfoma di Burkitt o il carcinoma nasofaringeo. Gli individui che sono già stati esposti al virus e hanno sviluppato anticorpi non sono più suscettibili a nuove infezioni. Esistono forme di malattia che non guariscono nell’arco di 4 mesi, e in questi casi si parla di mononucleosi cronica, mentre mancano evidenze di una persistenza dell’ infezione attiva. Un accenno a parte merita l’infezione cronica: si tratta di una malattia estremamente rara, caratterizzata dalla persistenza di sintomi simili a quelli della mononucleosi (febbre, adenomegalia, ingrandimendo di linfonodi, del fegato e della milza, alterazioni degli enzimi epatici e riduzione di elementi del sangue quali leucociti, piastrine, globuli rossi); a queste anomalie si associano alti livelli di virus nel sangue, dimostrati mediante ricerca del DNA virale. Un comune malinteso è quello di attribuire all’infezione da EBV, in base a un test positivo per anticorpi contro il virus, la fatica cronica; da questo punto di vista in passato all’infezione da EBV è stata anche associata la cosiddetta sindrome di fatica cronica, una forma patologica che ha ricevuto considerevole attenzione negli ultimi anni ma che ancora necessita di un inquadramento chiaro e resta molto controversa. Tale sindrome, la cui definizione è stata oggetto di più revisioni, non sembra però associata all’infezione da EBV ed è piuttosto legata alla fibromialgia, mentre secondo altre ipotesi sarebbe da collegare a disfunzioni immunitarie o endocrino-metaboliche, oppure all’ipotensione neuromediata o alla depressione.

La più comune alterazione di laboratorio nelle infezioni da EBV è l’aumento dei linfociti (condizione detta linfocitosi), il cui numero assoluto supera i 4.500/mm3 andando a rappresentare oltre la metà di tutti i globuli bianchi. Nello striscio di sangue osservato al microscopio si vedono i cosiddetti linfociti atipici, che assommano a un numero superiore al 10%: si tratta di linfociti T, espressione della risposta citotossica specifica del sistema immunitario all’infezione, e in particolare di linfociti T citotossici e in minor misura natural killer (NK); il numero totale di linfociti si aggira di solito intorno ai 12-18.000. Alcuni pazienti possono presentare una piastrinopenia (basso numero di piastrine) o una neutropenia (basso numero di leucociti neutrofili); può essere osservata inoltre un’anemia da distruzione dei globuli rossi (anemia emolitica). Ulteriore caratteristica della malattia è l’aumento degli enzimi epatici (transaminasi e fosfatasi alcalina): questa alterazione, tipica dell’epatite, non si traduce quasi mai in un’epatite clinica, ma si autolimita e regredisce nell’arco di alcune settimane.


Diagnosi

La diagnosi è suggerita al medico dai sintomi e dalle prime indagini di laboratorio (linfocitosi, transaminasi aumentate), ma deve essere confermata dall’evidenza di anticorpi aspecifici (tramite monotest) e specifici: molte malattie infatti possono presentarsi con un quadro clinico o di laboratorio simile, e tra queste la faringite da streptococco, l’infezione da cytomegalovirus (CMV), la toxoplasmosi, l’infezione acuta da HIV e altre malattie virali quali rosolia, morbillo ed epatite virale.

L’infezione da EBV causa la produzione di anticorpi eterofili: la presenza di questi anticorpi in un paziente con sindrome tipica è quindi diagnostica e rende superflui ulteriori test di conferma. Alcuni pazienti, d’altra parte, non producono questi anticorpi all’inizio della sindrome (fino al 25% nella prima settimana, fino al 10% nel complesso) e sono pertanto necessari altri test che evidenzino anticorpi specifici contro il virus o sue componenti: anti-capside (VCA), più precoci, anti-antigene nucleare (EBNA) o anti-antigene precoce (EA), più tardivi. Altri test più sofisticati, come la reazione polimerasica a catena (PCR), non sono di utilità diagnostica se non in particolari situazioni cliniche (infezione in immunodeficit o nei trapiantati). Gli anticorpi persistono per anni e, anche quando i test (anti-EA) sembrano suggerire una possibile riattivazione, il risultato non indica necessariamente che i sintomi siano dovuti al virus; un certo numero di persone presenta anticorpi per anni dopo l’infezione. L’interpretazione dei test sierologici per EBV è piuttosto complessa e spesso richiede l’intervento di uno specialista.


Terapia

Non esiste un trattamento specifico: la mononucleosi guarisce nella grandissima maggioranza dei casi, richiedendo solo un trattamento di supporto a base di antipiretici quali paracetamolo o antinfiammatori non steroidei (facendo attenzione alle controindicazioni!), una buona idratazione, un’alimentazione adeguata e il riposo. Non sono indicati antibiotici salvo in casi particolari, e soltanto se il medico ha stabilito che è associata un’infezione batterica: va tenuto presente infatti che le penicilline possono causare l’esantema. Anche l’impiego del cortisone è controverso e limitato al trattamento di alcune complicanze. È bene evitare di svolgere attività fisica durante tutta la malattia e nella convalescenza, almeno fino alla normalizzazione della milza (almeno 3-4 settimane) per il rischio che quest’organo si rompa, rischio presente soprattutto nelle prime tre settimane. La ripresa dell’attività fisica dovrà essere valutata con attenzione e non dovrà avvenire prima di 4 settimane, o meglio, solo dopo la normalizzazione dei parametri e della splenomegalia. Non è attualmente in commercio un vaccino in grado di prevenire la malattia; sono però in corso studi per realizzarlo, nell’ipotesi di ridurre il rischio delle conseguenze più gravi della malattia (linfomi, malattia in soggetti immunodepressi come quelli che hanno subito un trapianto). [P.C.]