hero image

Come rallentare l’Alzheimer: le novità dalla ricerca

La parola d’ordine degli scienziati è fiducia. Le ricerche stanno aprendo nuovi orizzonti nei confronti di questa malattia. E, sorpresa, puntano sull’utilizzo di sostanze naturali, come vitamine e alghe

credits: istock



«Dobbiamo essere ottimisti e abbiamo tanti elementi per farlo. Oggi la malattia di Alzheimer può venire rallentata e ridotta nel decorso. Purtroppo non abbiamo ancora la possibilità di curarla, ma numerosi elementi inducono la comunità scientifica alla fiducia».

Sono parole confortanti quelle del professor Alessandro Padovani, direttore della Clinica neurologica e docente all’Università degli Studi di Brescia. Le abbiamo raccolte in occasione della presentazione dei risultati ottenuti dai ricercatori della rete Airalzh Onlus (l’Associazione italiana ricerca alzheimer), di cui il neurologo è fondatore e membro del consiglio direttivo.

In Italia più di un milione di persone soffre di demenze e la maggior parte di esse è affetta da Alzheimer, malattia che colpisce circa il 5% degli over 65. Inoltre, con l’aumento dell’aspettativa di vita si calcola che nei prossimi trent’anni i casi potranno addirittura triplicare: un problema che coinvolge anche familiari e caregiver dei pazienti, che solo in Italia sono circa 3 milioni. Il quadro è complesso, però offre diversi motivi per avere fiducia: «La ricerca in questo campo è relativamente recente, ma i risultati raccolti sono davvero incoraggianti», osserva l’esperto.


I farmaci biologici da soli non bastano
Fino a oggi il trattamento dell’Alzheimer si è basato essenzialmente sui farmaci biologici: «Ma a fronte di costi molto elevati, hanno dimostrato un’efficacia modesta. Da soli non sono sufficienti e al momento possono costituire solo una parte dell’arsenale per combattere la malattia», osserva il neurologo. «Come accade per diverse malattie tipo sindrome metabolica, tumori e malattie infettive, è ormai chiaro che bisognerà concentrarsi sulle terapie combinate. Accanto ai farmaci contro l’amiloide andranno usati antinfiammatori, terapie neuroprotettive e farmaci ad azione antiossidante. A conferma di ciò, negli ultimi anni sono in netto aumento i finanziamenti per le cure rivolte alla neuroinfiammazione, rispetto a quelle concentrate solo sull’amiloide».


Nutraceutici: il mix protettivo
La prima novità è in dirittura d’arrivo: «Non posso entrare nei dettagli, ma sono in grado di anticipare che fra qualche mese verranno pubblicati i risultati di studi sorprendenti, che dimostrano come una particolare combinazione di sostanze nutraceutiche abbia effetti molto positivi per la lotta all’Alzheimer», anticipa Padovani. «Si tratta di un’azione neuroprotettiva e di un aumento della resistenza dell’organismo all’effetto tossico di amiloide e proteina tau, fra i principali responsabili della patologia», continua l’esperto. Diverse le sostanze coinvolte: «Anzitutto le vitamine B, D e C, ma anche altri composti. Attenzione, però: l’aspetto nuovo e fondamentale sta nel fatto che gli effetti benefici si ottengono solo se gli elementi vengono combinati fra loro, e non assunti singolarmente», precisa il professor Padovani.


Un aiuto extra dagli antiossidanti
Una sperimentazione che punta a dimostrare come l’assunzione di antiossidanti possa contribuire a ridurre i disturbi e l’incidenza della malattia è stata avviata pochi mesi fa, all’Istituto San Giovanni di Dio Fatebenefratelli di Genzano (Roma). «La ricerca coinvolge 40 persone con forme lievi di Alzheimer, suddivise in due gruppi», precisa il professor Massimo Marianetti, direttore medico scientifico del Centro Alzheimer presso la struttura laziale. «Assumeranno per 12 mesi un integratore a base di oleuropeina, contenuta in foglie d’olivo e olive, e glutatione biodisponibile, tra i più importanti e potenti antiossidanti che l’organismo sia in grado di produrre». Entrambe le sostanze hanno la capacità di ridurre l’aggregazione e la tossicità dell’amiloide, responsabile delle placche che danno origine alla malattia. Potrebbero dunque rivestire un ruolo protettivo molto importante, attenuando l’invecchiamento cerebrale tipico dell’Alzheimer.


Probiotici: l'aiuto da un'alga
«Alcuni studi condotti in Cina, che dovranno essere confermati, hanno dimostrato che la terapia probiotica può avere una buona efficacia per contenere la malattia», spiega Padovani. I pazienti con Alzheimer hanno un microbioma (l’insieme dei batteri che costituiscono la cosiddetta flora intestinale) alterato rispetto alle persone sane: «Tuttavia non bisogna pensare a farmaci che introducano flora batterica sana nell’intestino di un paziente. Piuttosto, si tratta di medicine a base di una particolare alga che ha mostrato un’efficacia probiotica».


Il litio può ridurre l'infiammazione
Assunto in microdosi, cioè in quantità centinaia di volte inferiori rispetto a quelle normalmente prescritte per la cura dei disturbi dell’umore, il litio potrebbe essere molto utile anche contro l’Alzheimer: è il risultato, molto promettente, di uno studio in vitro condotto dall’Università McGill (Canada), pubblicato sul Journal of Alzheimer’s Disease. In particolare, questo farmaco sarebbe in grado di ridurre l’infiammazione e lo stress ossidativo, al punto da influire sulla proteina amiloide.


Le sane abitudini: una certezza
Sempre più studi dimostrano gli effetti preventivi dettati da uno stile di vita corretto: «Contribuisce a ridurre di un terzo il rischio di demenza e produce benefici significativi dal punto di vista cognitivo», osserva il professor Padovani. «Mi riferisco a un’alimentazione corretta ed equilibrata, in particolare la dieta mediterranea, attività fisica quotidiana, vita sociale soddisfacente e adeguata attenzione ai fattori di rischio cardiovascolare.

Tutto ciò rende possibile due risultati: da un lato, ridurre le possibilità di comparsa del declino cognitivo negli individui in cui ancora non si è manifestato; dall’altro, rallentare il decorso in chi ha già mostrato i primi segnali di decadimento», specifica il neurologo. E negli stili di vita rientra anche l’igiene orale: «È scientificamente provato che una patologia odontoiatrica può attivare il processo infiammatorio che porta all’Alzheimer. Anche il batterio responsabile di una paradontite, per esempio, può far scattare la produzione dell’amiloide», conclude l’esperto.


Il futuro è hi-tech

Un giorno sapremo in anticipo come si evolverà l’Alzheimer a seconda delle caratteristiche del paziente. Avremo informazioni su come potrebbe reagire il malato se non assumesse quello specifico trattamento e quali possibili interazioni potrebbe avere su di lui un dato farmaco. Tutto grazie alla tecnologia digitale: «Per il momento si tratta di un’applicazione basata sull’analisi dei dati di sperimentazioni passate, oggetto di progetti in corso. Ma in un futuro non troppo lontano potrebbe diventare ordinaria amministrazione», annuncia il neurologo Alessandro Padovani. «I computer, per esempio, sono già in grado di generare una sorta di “gemello digitale” di ogni singolo paziente, descrivendo cosa potrebbe accadergli senza trattamento. Questi “doppioni’ sarebbero molto utili per ottimizzare il numero di partecipanti necessari a un determinato studio. Non solo: oggi alcuni modelli digitali permettono di regolare il dosaggio individuale di un medicinale in base alla farmacocinetica, cioè lo studio dei suoi effetti sull’organismo, prevedere potenziali interazioni e, addirittura, la progressione della malattia nel suo complesso».


Nuovi progetti, l'Italia è al top
Oggi la ricerca è impegnata a individuare nuovi obiettivi su cui concentrare le terapie come, per esempio, il contributo delle malattie cardiovascolari o i sintomi neuropsichiatrici dell’Alzheimer. Uno dei progetti internazionali più importanti è italiano: «Prevede la costruzione di una rete virtuale per le demenze nell’ambito degli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico.

L’obiettivo è creare una piattaforma che consenta di seguire nel tempo un numero molto vasto di pazienti e individuare fattori di rischio oppure meccanismi biologici potenzialmente strategici per lo sviluppo della malattia», spiega il neurologo Alessandro Padovani. «Il vantaggio di un progetto simile sta in una migliore valutazione dei farmaci per l’Alzheimer nelle sue diverse fasi, evitando così di bruciare investimenti in studi clinici che potrebbero rivelarsi fallimentari», tiene a precisare l’esperto.


Fai la tua domanda ai nostri esperti

Articolo pubblicato sul n. 13 di Starbene in edicola dal 10 marzo 2020

Leggi anche

Alzheimer, un nuovo farmaco lo curerà

Alzheimer: 3 nuove scoperte

Alzheimer, scoperta l’origine della malattia

Alzheimer, la proteina che blocca la malattia

Prevenire l’Alzheimer: 3 regole d’oro

Cervello: le dritte per mantenerlo in forma