di Valeria Ghitti
Ci sono preoccupanti livelli di antibiotico-resistenza negli allevamenti intensivi, soprattutto avicoli: a lanciare l’allarme è Compassion in World Farming (Ciwf) Italia Onlus, dopo la presentazione dell’ultimo rapporto sul tema curato dal Ministero della Salute.
Basta un esempio per farsi un’idea: su 709 campioni di polli analizzati, il 40,34% è risultato positivo al Campylobacter jejuni, che, a sua volta, si è dimostrato non curabile con le tetracicline in quasi il 79% dei casi e con i fluorochinolonici 9 volte su 10. Ciò può mettere a rischio anche la nostra salute. Come spiegano gli infettivologi che abbiamo intervistato.
L’USO DI ANTIBIOTICI PER I POLLI PUO' FAVORIRE CEPPI RESISTENTI, PERICOLOSI PER NOI?
«Sì, il loro impiego indiscriminato negli allevamenti o in agricoltura aumenta la circolazione di batteri resistenti», afferma Matteo Bassetti, direttore della Clinica malattie infettive dell’Ospedale Santa Maria Misericordia di Udine. «Anche se i farmaci sono generalmente diversi da quelli per uso umano, i meccanismi di azione sono sostanzialmente i medesimi e i microbi che contaminano gli animali sono gli stessi che possono attaccare noi».
MA PERCHE' SI SVILUPPA RESISTENZA?
«Si tratta di un meccanismo naturale. I batteri cercano di sopravvivere producendo enzimi capaci di distruggere gli antibiotici. Quelli che ce la fanno danno vita a ceppi resistenti. È un fenomeno vecchio quanto questi farmaci», spiega Bassetti. «Che però viene accelerato e aggravato dal loro uso sconsiderato».
QUINDI LA COLPA E' ANCHE UN PO' NOSTRA?
«Certo, qualsiasi impiego errato può favorire antibioticoresistenza », ribadisce Claudio Viscoli, presidente della Società italiana di terapia antinfettiva. A cominciare dall’uso contro i virus.
Le conseguenze? «I farmaci aggrediscono la flora intestinale, stimolando meccanismi di resistenza che possono essere trasmessi ad altri batteri oppure, quando c’è un calo nelle difese immunitarie, scatenare autoinfezioni insensibili alle cure», sostiene Bassetti.
Anche l’assunzione i dosi troppo basse o per un periodo inferiore a quello consigliato dal medico facilita la sviluppo di germi “più forti”.
«Sotto accusa ci sono infine i cicli di trattamento preventivo che avvengono in ospedale e che non sono legati a esigenze preoperatorie: secondo le statistiche, infatti, il 60% dei pazienti in corsia segue una terapia antibiotica inutilmente», dice Viscoli.
QUAL E' LA SITUAZIONE IN ITALIA?
Pessima. «Siamo uno dei Paesi che fa maggiore uso di questi farmaci per la salute umana (il quinto in Europa) e anche quello con le più elevate percentuali di resistenza », continua Viscoli. Per quasi tutte le combinazioni germe/antibiotico prese in considerazione dall’Istituto superiore di sanità più del 25% dei ceppi sopravvive.
CI SONO FARMACI ORMAI INUTILI?
«Alcuni, come fosfomicina e colistina, sono stati accantonati negli anni Settanta e Ottanta perché, con lo sviluppo quasi mensile di nuove molecole, si preferiva puntare su quelle che si ritenevano, per vari motivi, migliori.
Altri, come i macrolidi o i fluorochinoloni, finora molto usati, risultano sempre eno efficaci», spiega Bassetti. «Ma, in generale, non possiamo considerarne nessuno inutile. La resistenza non è un fenomeno irreversibile e se un farmaco non viene più usato per un certo periodo, può tornare attivo: è un po’ come se i batteri dimenticassero” il nemico e abbassassero la guardia».
SONO ALLO STUDIO NUOVI ANTIBIOTICI?
«Sì, ma sempre meno. L’ultima molecola è arrivata in Italia nel 2015», rivela Bassetti. «Quest’anno ne aspettiamo altre tre però, poiché sono state testate in base all’efficacia sulle malattie e non contro specifici batteri, non sappiano se funzionano anche contro i germi resistenti.
Oltre a puntare sui nuovi farmaci, stiamo rispolverando quelli vecchi che si dimostrano ancora utili in alcune situazioni», continua Bassetti. «Cerchiamo inoltre di ottimizzare l’efficacia residua degli antibiotici esistenti, aumentandone i dosaggi, modificandone la somministrazione, per esempio ricorrendo a infusioni continue, ma soprattutto associando più molecole tra loro», aggiunge Viscoli.
E PER NON PEGGIORARE LA SITUAZIONE?
«Bisogna imparare l’uso corretto degli antibiotici disponibili, altrimenti anche quelli nuovi perderanno efficacia rapidamente: andrebbero prescritti solo da specialisti infettivologi e, come accade in Inghilterra, fornendo solo la quantità di farmaco necessaria per il ciclo di cura, senza rimanenze che potrebbero poi favorire il fai da te», consiglia Viscoli.
«Occorre poi migliorare la prevenzione in ospedale, attuando misure di igiene precise, come lavarsi e disinfettarsi le mani prima di entrare in reparto, ma anche affinando le tecniche di diagnosi che identificano gli agenti infettivi, per prescrivere gli antibiotici in modo sempre più mirato», conclude l’esperto.
5 SORVEGLIATI SPECIALI
Sono diventati resistenti a più antibiotici e causano soprattutto infezioni ospedaliere. Eccoli.
>ENTEROCOCCUS FAECIUM: comune nelle feci umane e di molti animali, causa cistiti, endocarditi, setticemie e meningiti. È insensibile in particolare alla vancomicina.
>STAPHYLOCOCCUS AUREUS: spesso presente nel naso, è responsabile di sepsi, endocarditi, polmoniti, meningiti, osteomieliti e infezioni cutanee ed è resistente alla meticillina.
>KLEBSIELLA PNEUMONIAE: colonizza spesso il nostro apparato gastrointestinale, la pelle e le vie respiratorie superiori. Provoca infezioni
polmonari e setticemie, resiste a tutti gli antibiotici comuni.
>ENTEROBATTERI: vivono nell’intestino umano e animale. Tra di essi l’Escherichia coli, responsabile di infezioni del sangue, ma anche urinarie, della pelle e delle ferite chirurgiche, sempre più insensibile a fluorochinoloni e cefalosporine di terza generazione.
>PSEUDOMONAS AERUGINOSA: vive negli ambienti acquatici e umidi, è inattaccabile da gran parte dei farmaci, causa soprattutto disturbi alla pelle, ai tessuti molli, respiratori, urinari e setticemie.
Articolo pubblicato sul n.17 di Starbene in edicola dal 12/04/2016