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Osteoporosi, nuove frontiere di cura dallo spazio

Un progetto punta a realizzare una terapia rivoluzionaria che non prevede farmaci. Scopri in cosa consiste

credits: iStock




Un laboratorio in un’astronave per mettere a punto nuove cure contro l’osteoporosi, la malattia che rende le ossa fragili e favorisce le fratture. Non è la trama di un film di fantascienza, ma la realtà di questi giorni.

Sulla Stazione spaziale internazionale sta arrivando uno speciale macchinario con otto campioni di sangue, che servirà per lo studio sperimentale “Serism”, nell’ambito della missione Vita (acronimo di Vitalità, Innovazione, Tecnologia e Abilità).


L'esperimento

«Il sangue contenuto nelle provette è stato sottoposto a terra a uno speciale procedimento di centrifugazione, per ottenere un mix di cellule staminali», spiega Mauro Maccarrone, professore di biochimica all’Università Campus Bio Medico di Roma.

«L’astronauta italiano Paolo Nespoli avrà il compito di dare il via al macchinario in momenti ben precisi, in modo da aggiungere ai campioni di sangue la Rapamicina. Studi recenti hanno dimostrato che questa sostanza ha la capacità di trasformare le cellule staminali del sangue in osteoblasti, cioè cellule che producono osso», spiega il professore.

L’aggiunta dello speciale ingrediente avviene in un campione per volta, in tempi predeterminati, e servirà per verificare al rientro dalla missione spaziale la capacità delle cellule staminali in orbita di produrre materia ossea nel tempo.


La ricerca 

«Vogliamo riuscire a mettere a fuoco il ruolo degli endocannabinoidi nel processo di formazione del tessuto osseo. Si tratta di molecole simili agli ormoni, che hanno la capacità di “accendere” un ben preciso recettore, cioè un interruttore presente sulle cellule, capace di regolare il rimodellamento osseo», spiega il professor Maccarrone.

«Secondo alcune ricerche, l’alterazione a carico di questo recettore potrebbe essere una causa importante di osteoporosi». Il malfunzionamento di solito si instaura lentamente negli anni, in modo silente.

È per questa agione che molte volte la scoperta di soffrire di osteoporosi avviene all’improvviso, quando si verifica una frattura a causa dello scheletro divenuto fragile quanto il vetro. Nello spazio invece l’osteopenia, cioè il primo passo verso l’osteoporosi vera e propria, si instaura in modo accelerato.

«È noto ormai da molti anni che dopo alcuni mesi in micro-gravità nello spazio, gli astronauti perdono densità ossea in modo importante», chiarisce l’esperto. «Il primo obiettivo della ricerca, quindi, è trovare una soluzione ad hoc per loro, da estendere poi in generale a chi ha le ossa fragili a causa dell’osteoporosi».


Il trattamento futuro

Lo scopo di questa prima fase dello studio è capire se è possibile riuscire a programmare le staminali in modo che svolgano il loro compito di “costruzione” dell’architettura ossea. E se riescono a “reggere” nonostante le sollecitazioni importanti che avvengono durante il viaggio nello spazio.

«Se così fosse, potremmo programmare poi di passare alla seconda fase del nostro lavoro», prosegue l’esperto. «Attraverso il prelievo di sangue degli astronauti stessi potremmo ottenere le staminali da stimolare affinché si trasformino nel giusto mix da reimmettere  el loro circolo sanguigno».

Insomma, niente farmaci e neppure mesi di riabilitazione al ritorno a terra, ma un’autotrasfusione che velocizza il ripristino delle loro condizioni di massa ossea normale. «Se i risultati di questo lavoro, il primo nel suo genere, ci daranno ragione, non ci fermeremo al trattamento degli astronauti», sottolinea il professor Maccarrone.

«Lo stesso approccio verrà applicato a pazienti con osteoporosi nell’ambito di uno studio più ampio».


I vantaggi rispetto alle cure attuali 

Oggi i capisaldi della cura dell’osteoporosi sono i bifosfonati. Questi principi attivi hanno alle spalle il maggior numero di studi clinici. Vengono utilizzati per la prevenzione delle fratture in chi ha già i segni di una perdita di tessuto osseo e per il trattamento dell’osteoporosi vera e propria quando si sono già manifestate le fratture. La classe di farmaci comprende numerosi principi attivi accomunati dalla modalità d’azione.

Tutti, infatti, “spengono” l’attività degli osteoclasti e danno modo agli osteoblasti di proseguire con la loro attività di costruzione, anche se rallentata. Un altro farmaco con modalità di azione diversa rispetto ai bisfosfonati, è il ranelato di stronzio.

Rispetto agli altri, “vivacizza” gli osteoblasti che in chi soffre di osteoporosi funzionano a rilento e inibisce gli osteoclasti. «Sono tutte molecole estremamente valide e che hanno cambiato la storia della malattia », sottolinea l’esperto.

«Ma hanno il difetto di non poter permettere una personalizzazione della cura. Cosa che invece potremmo ottenere con l’autotrasfusione di sangue del paziente stesso, “educato” alla costruzione di nuovo tessuto osseo».


Mai senza vitamina D

Oltre cinque donne over 50 su dieci hanno livelli insufficienti di vitamina D nel sangue ma non lo sanno. Un bel problema. Perché questa sostanza aiuta il tessuto osseo ad assorbire il calcio, cioè il minerale fondamentale per contrastare l’osteoporosi.

Il modo migliore per “dare il via” alla produzione di vitamina D è quello di prendere il sole, dal momento che i raggi solari ne attivano i depositi che abbiamo sotto la pelle. Sì allora a passeggiare tutti i giorni per 15-20 minuti all’aria aperta, anche se non c’è un granché di sole.

E quando il tempo lo permette, scoprire le braccia fino ai gomiti, ma senza crema protettiva, almeno in quel quarto d’ora: crea una barriera che limita l’azione dei raggi solari.


Il test per controllare se le ossa sono forti

L’esame per la diagnosi dell’osteoporosi si chiama Moc, o mineralometria ossea computerizzata e oggi viene eseguita con metodica Dxa, cioè con doppio raggio X. Rispetto alla precedente versione, quest’ultima è più accurata perché è in grado di valutare anche una modifica pari all’1 %.

Anche la Dxa, come viene chiamata in “gergo”, non comporta rischi per la salute, perché la dose di raggi che viene assorbita dal corpo è comunque molto bassa.

Si effettua nei centri diagnostici, oppure negli ambulatori ospedalieri ed è a carico del Servizio sanitario dopo i 65 anni. Così però, dicono gli esperti, sfugge al controllo quel mondo sommerso di casi di osteopenia tra le cinquantenni, che rappresenta già il primo passo verso l’osteoporosi.

Per questo, sarebbe utile sottoporsi a una prima Moc già intorno ai 50 anni, cioè quando inizia la menopausa: il costo, che è tra 60 e 100 € se l’esame è eseguito privatamente.


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Articolo pubblicato sul n. 36 di Starbene in edicola dal 22/08/2017

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