Storia vera: “Ho vinto l’epilessia con un’operazione chirurgica”

Un tempo l’intervento era considerato “l’ultima spiaggia”, oggi è un’opzione di cura che, in alcuni casi, non ha senso rimandare. Come racconta Anna, la nostra protagonista



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«Perché soffrire se si può stare bene? Perché aspettare per una cura se può essere risolutiva? Io sono guarita dall’epilessia - anche se lo dico ancora incrociando le dita - grazie a un’operazione effettuata dopo ben dieci anni di inutili tentativi con i farmaci»: Anna Pillon, 42 anni, trevigiana, vuole raccontare la sua storia perché ancora oggi troppo spesso la chirurgia viene considerata “l’ultima spiaggia”. Prolungando così inutilmente le sofferenze di chi patisce le crisi – e lo stigma – di una malattia circondata dal pregiudizio.

«Io stessa, per anni, non ne ho voluto parlare. Privandomi così della possibilità di condividere le mie sofferenze e anche di trovare informazioni terapeutiche». Anna lavora nell’informatica, vive da sola e per hobby balla il boogie woogie. Anche lei, come tanti, non sapeva nulla dell’epilessia, credeva si manifestasse nell’infanzia e fosse ereditaria.

«Ma a 23 anni ho cominciato ad avere qualche piccola “assenza”. Ho incolpato la stanchezza: studiavo economia, avevo cominciato uno stage, facevo mille progetti». Il medico le prescrive una visita da un neurologo e un elettroencefalogramma. La diagnosi, comunicata dallo specialista in modo freddo, scarabocchiando la terapia sul ricettario, senza spiegazioni, è un fulmine a ciel sereno.


La malattia da tenere segreta

«In ufficio non ho detto nulla. Non era vergogna, ma desiderio di una vita normale, senza sguardi pietosi: volevo essere Anna al 100%. All’inizio ho esitato a dirlo anche a mia madre, che poi è diventata la mia grande alleata. È stata lei a cercare dei neurologi che potessero darci delle risposte».

I farmaci antiepilettici, infatti, non funzionavano, e le “assenze” diventavano più frequenti. Gli esperti procedevano per tentativi: cambiavano i principi attivi, aumentavano i dosaggi, aggiungevano integratori e prodotti omeopatici. Tutto inutile.

«Il pensiero che per me non ci fosse una cura mi ha angosciato moltissimo. Non avevo le crisi da “grande male”, quelle con le convulsioni, e perciò qualcuno attribuiva i miei problemi allo stress».

Nonostante tutto, Anna riesce a laurearsi, a completare lo stage e a essere assunta. «Con vari limiti nella vita quotidiana: non potevo guidare, dovevo avere sempre con me i farmaci, gestire i problemi di memoria e il timore di non farcela».


La malattia da curare

«La grande svolta è avvenuta per caso. Un giorno, in vacanza, sono stata soccorsa da un ragazzo durante una crisi. Ci siamo messi insieme e grazie a lui ho scoperto il centro specialistico per l’epilessia di Bologna, la sua città». Finalmente Anna ha informazioni corrette sulla sua patologia: a cominciare dal fatto che ci sono “tante” epilessie, ma nessuna è causata da disagi psicologici.

«È una malattia neurologica. Il mio focolaio cerebrale era sempre attivo perché i farmaci non avevano effetto sui neuroni che diventavano sempre più “cattivi”. Tanto che l’ultima crisi, prima dell’intervento, è stata di “grande male”, con le temute convulsioni e la corsa in Pronto soccorso».

Durante il ricovero presso l’Unità di monitoraggio intensivo epilettico, individuano il focolaio epilettico e rilevano che quella piccola parte del cervello può essere asportata senza conseguenze. «Nel 2007 sono entrata in sala operatoria con il sorriso, piena di fiducia. Dopo una settimana, ero di nuovo a casa. E, due anni fa, ho potuto smettere definitivamente le terapie».


La malattia da raccontare

Anna non ha smesso, però, di voler parlare dell’epilessia. «Ci vuole coraggio a tornare in ufficio o a scuola sapendo che gli altri ti hanno visto stravolta durante una crisi: il rischio di essere discriminati è alto. A me è successo: dopo una riorganizzazione aziendale, pur essendo già stata operata, sono stata indotta – attraverso un demansionamento – a dare le dimissioni. In un successivo colloquio, mi è stato rinfacciato “il mio passato sanitario”.

Il pregiudizio è frutto della paura verso ciò che non si conosce. Oggi, invece, lavoro per un’azienda che mi riconosce una marcia in più anche per la forza con cui ho convissuto con la mia malattia. Io sono stata in silenzio per tanto tempo, ma quando ho iniziato a parlare di epilessia mi sono resa conto che quelli come me sono tanti, mentre io per anni mi ero sentita sola e “speciale”. Mettersi a nudo non è facile. Ma sapere che qualcuno trae beneficio dalla nostra esperienza dà un senso alla sofferenza e ci è profondamente utile».


Le terapie oggi

L’epilessia è una malattia neurologica che affligge almeno una persona su 100 nei Paesi industrializzati. «Si diagnostica con l’elettroencefalogramma e la visita di un epilettogo», spiega Laura Tassi, chirurgo dell’epilessia dell’Ospedale Niguarda di Milano e vicepresidente della Lega italiana contro l’epilessia (lice.it).

«La maggior parte delle forme non guarisce spontaneamente, richiede l’assunzione di farmaci per tutta la vita e, purtroppo, il 40% dei pazienti non è sensibile alle cure. L’unica terapia che ridona piena libertà dalla malattia è la chirurgia, indicata solo in alcuni tipi di epilessia».

L’intervento (effettuabile anche nei bambini con le opportune valutazioni) consiste nella rimozione della regione cerebrale responsabile della crisi. Circa il 70% dei pazienti operati ottiene ottimi risultati, e in un secondo tempo può ridurre fino a sospendere i farmaci. I Centri specializzati sono pochi: si calcola che almeno 7-8mila pazienti potrebbero essere operati ogni anno, mentre attualmente gli interventi sono solo circa 300.


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Articolo pubblicato nel n° 17 di Starbene in edicola dal 9 aprile 2019

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