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L’anoressia è (anche) una questione di geni

Uno studio ha dimostrato che il Dna determina la predisposizione a sviluppare la malattia, influenzando sia la psiche, sia la resistenza al digiuno o la capacità di bruciare calorie

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L’anoressia è scritta nel nostro Dna. A suggerirlo è un ampio studio pubblicato sulla rivista Nature Genetics e condotto da oltre cento ricercatori di tutto il mondo, fra cui Angela Favaro e Maurizio Clementi dell’Università di Padova.

«Non è la prima volta che si parla di predisposizione genetica per questa patologia. Già altre ricerche avevano dimostrato che l’anoressia nervosa affonda le sue radici nei geni ed è quindi un disturbo parzialmente ereditario», commenta la professoressa Angela Favaro.

«La novità sta nel fatto che queste mutazioni genetiche non influenzano solo gli aspetti psicologici della malattia, come il forte desiderio di dimagrire, ma anche quelli metabolici. In pratica, condizionerebbero l’assorbimento degli zuccheri nel sangue, il senso dell’appetito e della sazietà, l’accumulo di grasso corporeo e altri parametri fisico-metabolici».


Da dove nasce la facilità a dimagrire
In particolare, lo studio condotto su 16.992 persone affette da anoressia e 55.525 soggetti sani europei, americani e australiani, ha individuato otto segmenti di Dna (in gergo scientifico, loci genetici) collegati alla malattia, ma il sospetto è che ce ne siano molti altri.

Questi conterrebbero particolari geni che, da un lato sono correlati a patologie psichiatriche, come l’ansia, il disturbo ossessivo-compulsivo, la depressione e le psicosi, dall’altro consentono digiuni prolungati senza che l’organismo intervenga a stimolare l’appetito attraverso segnali ormonali.

Da qui la predisposizione a reggere periodi di astinenza alimentare che altri non tollererebbero. Gli stessi geni mutati renderebbero i soggetti inclini a praticare esercizio fisico e, di conseguenza, a bruciare più calorie.

«Tutto questo contribuisce a spiegare le difficoltà che le persone affette da anoressia incontrano nel raggiungere e nel mantenere un peso normale», spiega ancora la professoressa Favaro. «Se il metabolismo “rema contro”, l’aumento di peso diventa impegnativo e le “ricadute” verso periodi di semidigiuno sono frequenti. Così i pazienti, che sono riusciti a diventare normopeso, dopo un periodo di precario assestamento, tendono a dimagrire nuovamente». E questo continuo yo-yo stressa l’organismo e, a lungo andare, nuoce alla salute.


Conta anche l’ambiente sociale
Lo studio rappresenta un grande passo avanti perché apre nuovi scenari terapeutici. Anche se, allo stato attuale, le cure sono sempre le stesse e corrono sul doppio binario di dieta e psicofarmaci.

«Chi soffre di anoressia deve sempre affidarsi a centri specializzati, dove è presente un’équipe multidisciplinare in grado di valutare tutte le sfaccettature del problema, compresa l’impronta ereditaria che influenza il metabolismo», avverte la nostra esperta.

«Nella maggior parte dei casi, infatti, mangiare “normalmente”, secondo uno schema di riabilitazione nutrizionale, non basta per raggiungere un peso accettabile. Servono diete speciali, tarate sulla singola persona e seguite passo dopo passo nei loro effetti. Ovviamente, il legame con il Dna non rende l’anoressia nervosa una malattia esclusivamente di origine genetica. Come per tutte le malattie multifattoriali, esiste una predisposizione di base che però, da sola, non è sufficiente a farci ammalare.

Gli altri fattori scatenanti? «La qualità delle relazioni familiari, lo stile alimentare seguito in casa e al ristorante, il carattere perfezionista, la presenza di un ambiente sociale (la scuola, le amiche, la palestra, il corso di danza...) che attribuisce un eccessivo valore alla magrezza, eventuali episodi di bullismo o maltrattamenti subiti, la scarsa autostima, fino all’abuso di sostanze stupefacenti».

Questo quadro variegato rende difficile immaginare che in futuro basterà un test genetico per decretare la tendenza a diventare anoressici. «Sono troppi gli elementi in gioco, che si incastrano come i tasselli di un puzzle», conferma la professoressa Favaro. «Il prossimo passo sarà approfondire la conoscenza delle differenti varianti genetiche, comprendere meglio i loro meccanismi e mettere a punto terapie mirate, capaci di portare all’aumento di peso in modo affidabile e continuativo», conclude Angela Favaro. «Solo allora sarà possibile praticare, anche per l’anoressia, quella che oggi viene definita la “medicina di precisione”: trattare il paziente in modo diverso, in base al proprio profilo psichiatrico, genetico e metabolico».


Occhio ai segnali

Soffrire di un disturbo dell’alimentazione come l’anoressia sconvolge la vita di una persona e ne limita le relazioni lavorative e sociali, perché tutto ruota attorno al cibo e alla paura di ingrassare.

Cose che prima sembravano banali diventano motivo di ansia, come andare in pizzeria o al ristorante con gli amici, partecipare a un compleanno o a un matrimonio. Spesso i pensieri ossessivi sul cibo assillano le “vittime” anche quando non sono a tavola, ad esempio a scuola o sul lavoro. Così, seguire la lezione può diventare difficile perché nella testa sembra esserci posto solo per i pensieri su cosa “bisogna” mangiare o evitare.


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Articolo pubblicato nel n. 36 di Starbene in edicola dal 20 agosto 2019

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