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Ernie e protrusioni: perché vengono e quali sono le cure più efficaci

Diffuse tra chi fa vita sedentaria, colpiscono anche gli amanti degli allenamenti strong. E con l’età diventano sempre più frequenti. Ecco tutte le armi per combatterle

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Quando ti pieghi in avanti per raccogliere qualcosa da terra oppure se sollevi la testa per guardare il cielo. E tutte le volte in cui ti volti o ti fletti da un lato. È in questi casi che entrano in azione, senza che tu te ne accorga, i dischi intervertebrali: «Di forma circolare, posti tra una vertebra e l’altra lungo tutta la colonna, hanno la funzione di ammortizzare e distribuire ogni sollecitazione che arriva dai movimenti del corpo» spiega il dottor Francesco Costa, neurochirurgo dell’ospedale Humanitas di Rozzano (Milano). Messi insieme, coprono circa un terzo della lunghezza complessiva della colonna vertebrale.

In genere ci si ricorda della loro importanza solo quando si verifica una discopatia, cioè un’alterazione del loro spessore e della loro posizione che può causare un dolore intenso e invalidante. I dischi intervertebrali possono modificarsi per vari motivi: «Per esempio un trauma molto serio, come un incidente in auto o in moto, oppure tanti piccoli traumi causati da attività sportive praticate a livello intensivo come corsa, salto, basket o pallavolo. E ancora per la sedentarietà, visto che servono muscoli tonici e allenati per proteggere meglio la colonna vertebrale. E poi per l’avanzare dell’età», elenca il dottor Costa.

Esistono due tipi di discopatie, ecco come si differenziano e quali sono le cure migliori.


LA PROTRUSIONE

L’alterazione più frequente è la protrusione: «Quando il disco perde spessore o idratazione, può protrudere, cioè debordare dal suo spazio naturale e invadere quello circostante fino a toccare le vicine radici nervose», sottolinea Costa. «Ciò provoca dolore, che può irradiarsi lungo il nervo sciatico nella parte posteriore della gamba oppure lungo quello crurale, che interessa più il lato anteriore, la coscia e l’inguine». Per la diagnosi è sufficiente la visita dello specialista, che di solito prescrive anche una risonanza magnetica.

Come si affronta una protrusione discale? «Si parte sempre da una terapia “conservativa”, cioè basata sui farmaci. Il primo obiettivo, durante la fase acuta, consiste nell’eliminare il dolore e l’infiammazione, tramite analgesici come il paracetamolo e antinfiammatori oppure cortisone da prendere per almeno una decina di giorni», precisa il dottor Costa. «Di solito si prescrive anche un miorilassante, per allentare la contrattura muscolare che contribuisce ad alimentare il problema».

In questa fase si può ricorrere all’osteopatia o alla chiropratica: «Hanno il vantaggio di calmare i sintomi e di accelerare i tempi di recupero. Ma non bisogna sopravvalutarne gli effetti: anzitutto da sole non bastano per risolvere il problema, perché il disco protruso resta tale e non torna al suo posto grazie a loro. E, in secondo luogo, non eliminano la necessità di ricorrere alla ginnastica nella fase successiva». Le sedute non sono rimborsate del Servizio sanitario nazionale e bisogna metterne in preventivo almeno 3-5 (costano a partire da 60 € circa l’una).

Il passaggio davvero indispensabile, nella terapia della protrusione discale, è la ginnastica: «È fondamentale soprattutto perché evita ricadute periodiche. Ginnastica posturale, metodo Feldenkreis, Pilates, yoga: a mio avviso conviene sempre scegliere quella che piace di più, perché andrà praticata molto a lungo, per percepirne i benefici», avverte il dottor Costa.

Un discorso a parte merita l’ozonoterapia: «Una miscela di ossigeno e ozono viene infiltrata tramite iniezione di solito nei piani muscolari o vicino al “forame vertebrale”, il canale che contiene il midollo spinale. Serve a disinfiammare e far ridurre il volume del disco affinché rientri dalla protrusione. In questo modo si punta a risolvere il dolore», spiega il nostro esperto. «Questa cura non ha particolari controindicazioni ed è molto efficace. Non basandosi su un farmaco, è ideale per gli allergici ai principi attivi o per coloro che già seguono terapie molto complesse, come i diabetici. D’altro canto, però, così come tutte le altre cosiddette tecniche infiltrative percutanee (per esempio la radiofrequenza pulsata), non guarisce definitivamente il problema al disco, e al momento non ci sono studi sufficientemente qualificati che ne stabiliscano la superiorità, in termini di efficacia, rispetto ad altri trattamenti. Inoltre prevede una spesa non indifferente, considerando che servono almeno 5-10 sedute a un costo di massima di 40-80 € ciascuna», fa notare il dottor Costa.


L’ERNIA DEL DISCO

La protrusione può essere considerata l’anticamera di un problema più serio: l’ernia. Dentro ciascun “cuscinetto” c’è il cosiddetto nucleo polposo: «Se il disco si deteriora al punto da rompersi, il suo contenuto fuoriesce e va a occupare lo spazio circostante. Risultato: compressione delle radici nervose con conseguente infiammazione e dolore», sottolinea l’esperto.

Dal punto di vista della terapia, l’ernia del disco si tratta in modo diverso a seconda della sua gravità: ci sono casi che non devono essere operati; situazioni intermedie che possono richiedere un intervento chirurgico; casi per i quali è necessario il bisturi. Le ernie del primo tipo vanno trattate come una protrusione discale: «Per risolvere il problema basta una terapia basata su farmaci, trattamenti manipolativi e ginnastica», precisa Costa.

Quando l’ernia è di gravità media, si fa un monitoraggio della situazione: «Anche in questo caso si comincia con una strategia conservativa, ma sotto stretto controllo del medico se ne valutano i risultati nel tempo. Se dopo 6-7 mesi non vi sono miglioramenti significativi, e una nuova risonanza magnetica mostra che l’ernia del disco non si è risolta, il neurochirurgo può scegliere di asportarla».

Ci sono infine i casi che richiedono necessariamente l’operazione: «Sono decisamente più rari, di solito quelli in cui c’è un coinvolgimento del nervo motorio, per cui il paziente lamenta disturbi della sensibilità e della forza dei piedi. L’urgenza viene comunque valutata caso per caso», fa notare l’esperto.

In che cosa consiste l’intervento? «Richiede in genere una notte di ricovero e si effettua in anestesia generale. Il giorno dopo, tuttavia, si può tornare a casa», spiega l’esperto. «Già dai primi giorni di convalescenza ci si può muovere con una certa libertà, per esempio si possono fare con prudenza le scale. Per un paio di settimane almeno è meglio non guidare l’automobile né sollevare pesi. Dopo circa un mese dall’intervento chirurgico, si deve cominciare con la ginnastica posturale o qualunque altra disciplina che rafforzi la core stability, cioè quell’insieme di muscoli della parte centrale del corpo che danno stabilità alla colonna», conclude il nostro esperto.


LE BUONE ABITUDINI

«Anche se non senti più dolore e ti sembra di essere guarita, devi evitare tutte quelle situazioni che potrebbero aver causato il problema», avverte il dottor Filippo Camerota, fisiatra e dirigente medico del policlinico universitario Umberto I di Roma. «Dunque non fare lunghi viaggi in auto senza scendere almeno 2-3 volte. Evita di sederti su sedie troppo basse, piega un po’ le ginocchia quando lavi i denti, non restare seduta troppo a lungo, ma alzati e muoviti un po’ ogni mezz’ora anche solo per un paio di minuti. E ricomincia a fare sport dopo 30-45 giorni dalla fine dell’attacco doloroso, se il medico lo ritiene opportuno e senza mai forzare», dice il fisiatra.




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Articolo pubblicato sul n. 24 di Starbene in edicola dal 29/05/2018

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