Gianluca Gazzoli e la sua vita con un defibrillatore nel petto

Un’aritmia maligna l’ha costretto a lasciare il basket agonistico. Ma, nonostante il suo «cuore matto», gioca ancora e fa molto altro. Con un defibrillatore impiantato nel petto. Il conduttore radiofonico e televisivo si racconta in un libro e in questa intervista



252258

Problemi di cuore? Non ci riferiamo alle relazioni sentimentali ma a quelle patologie cardiache che associamo sempre agli anziani. Possono, invece, colpire anche i giovanissimi, che si ritrovano la loro vita di studenti, sportivi, amici e fidanzati sconvolta da un’improvvisa malattia. È successo a Gianluca Gazzoli, conduttore radiofonico e televisivo, in onda su Radio Deejay con la trasmissione Megajay.

252309A vederlo così, con il suo 1,90 m di altezza, la t-shirt tirata sui bicipiti scolpiti e la pelle piena di tatuaggi, sembra il ritratto della salute. Eppure, da quando ha 15 anni, la sua vita è appesa ai fili elettrici di un defibrillatore. E ora che di anni ne ha 32 ha scelto di raccontare la sua storia in un libro: Scosse. La mia vita a cuore libero (Mondadori, 17 €). Lo abbiamo intervistato, per ascoltare la sua lezione di vita.


Ci racconti quali sono stati i primi sintomi?

Avevo 14 anni ed ero uno sportivo “multitasking” (lo sono ancora). Correvo, giocavo a calcio ma soprattutto a basket, la mia passione. Durante una corsa, ha cominciato a girarmi la testa, la vista si è appannata, il respiro è diventato affannoso. Mi sono piegato su me stesso, con la mano destra sul cuore che galoppava all’impazzata, quasi volesse schizzare via dalla gabbia toracica. Pochi minuti e ho ripreso a giocare. Non ho riferito la cosa agli insegnanti né ai miei genitori perché temevo che mi escludessero dagli allenamenti e dalle gare. In cuor mio (è il caso di dirlo) speravo in un episodio isolato. Invece, giocando a basket, l’attacco di tachicardia ritornò. A quel punto non potevo più nasconderlo perché ero costretto a fermarmi, uscire dal campo e aspettare che il mio cuore ritornasse a battere normalmente. Così i miei genitori furono informati e iniziai la trafila degli accertamenti. Una vera seccatura per un ragazzino di 14 anni.


A quali esami ti sottoposero?

Feci l’elettrocardiogramma, l’ecodoppler e più volte l’Holter cardiaco per registrare la frequenza, cioè il numero di battiti al minuto. La cosa strana è che nessuno degli esami rivelò qualcosa di anomalo. Non saltava fuori niente. Ma poiché, quando giocavo a basket, continuavo ad avere le “crisi”, i miei mi portarono da un aritmologo che decise di applicarmi l’Holter durante una partita. Ricordo che mi presentai al campo tutto imbragato, con la macchinetta sul petto e diverse cinture che mi passavano sul dorso per tenerla fissa. Manco a dirlo, mentre corro, palleggio e tiro sto male: il mio cuore supera i 300 battiti al minuto, per quel connubio di stress fisico ed emotivo che si verifica durante le gare. L’Holter registra tutto: l’impennata di battiti seguita da pochi secondi in cui il cuore si ferma, non pompa più. Una situazione molto pericolosa che ha condotto alla morte professionisti del mondo dello sport, come Davide Astori, il capitano della Fiorentina scomparso nel 2018 a soli 31 anni.


Come ti hanno curato?

In seguito a questo esame “sul campo”, mi fu diagnosticata un’aritmia ventricolare maligna, di quelle che prima o poi ci resti secco. Fu una vera doccia fredda. Dovetti fermarmi con lo sport e affrontare tre tentativi di ablazione transcatetere, l’intervento con il quale si asporta quel “nervetto impazzito” che scatena l’aritmia. Da sveglio, con una sonda inserita all’inguine risalgono fino al cuore, dove avrebbero dovuto farmi l’ablazione cardiaca. Parlo al condizionale perché per intervenire occorre che il cuore cominci a battere freneticamente come durante un attacco. Ma non è facile riprodurre in sala operatoria le condizioni che lo scatenano. Ricordo che per stressarmi mi chiesero le tabelline. Ma niente, proprio quando avrebbe dovuto imbizzarrirsi il mio cuore fece il bravo. Fallita l’ablazione, il cardiochirurgo decise di tentare un’altra strada: impiantarmi un defibrillatore dentro il petto, pronto ad azionarsi appena la frequenza cardiaca supera i 200 battiti. E così, a 15 anni, mi inserirono questo “salvavita” sotto pelle.


In che modo hai reagito alla situazione?

Con l’incoscienza di un quindicenne che ha sempre fatto sport e non vuole rinunciarvi. Mi spiegarono che il “paracadute” doveva aprirsi soltanto in casi estremi, che non dovevo sfidare il destino con prove off limits. Nonostante ciò io continuavo a correre e a giocare a basket come sempre. Ma la prima volta che si attivò il defibrillatore, stramazzai al suolo come un ramo colpito da un fulmine: tutto il corpo è percosso da una forte scarica elettrica che fa un male cane e ti fa accasciare a terra, privo di sensi. Non è una sensazione bella, ti sembra di morire. È un po’ come nei film, tipo il Dr. House, quando si vede che, premendo un defibrillatore sul petto, inviano una scossa capace di rianimare il paziente. Ciononostante, i primi anni ho mandato il mio cuore in tilt per ben 5 volte, e per 5 volte ho provato lo “scossone” del defibrillatore.


Mai avuto paura di non farcela?

No, confidavo nella tecnologia impiantata nel mio corpo e sapevo che, in caso di sforzi, l’invisibile defibrillatore mi avrebbe salvato la pelle. Una sola volta mi sono sentito vulnerabile. È stato a 20 anni quando, riaccompagnando a casa la mia fidanzata, trovammo sua mamma stesa a terra senza vita. Aveva solo 50 anni e soffriva di cuore come me: da poco le avevano messo un pace-maker. Capii che non bisogna fidarsi troppo delle tecnologie, la variabile umana è determinante e anch’io potevo finire così. Nel momento in cui, a 20 anni, ho ripreso il basket, ho avuto qualche attacco di panico durante le partite. Mi girava la testa, tremavano le gambe, mancava il fiato. Appena esageravo un po’ e il cuore cominciava a galoppare, pensavo: “Oddio, ora arriva la scossa, adesso parte...”.


Oggi hai 32 anni e sei padre di Rachele, una bimba di 2. Pratichi ancora sport?

Certo. Tutte le mattine vado a correre lungo il canale Martesana di Cernusco sul Naviglio. Poi gioco a basket (il primo amore non si scorda mai), calcio, tennis e faccio pesi in palestra. Pratico tutto quello che mi piace, senza strafare. Con il tempo sono diventato adulto e mi sono dato una calmata. Ho imparato che non ha senso sfidare la morte e far suonare la sirena del defibrillatore. Faccio sport ma, appena sento che arriva un attacco di tachicardia, rallento, mi fermo prima che il defribillatore si azioni. Ho, inoltre, trasferito la mia passione anche nel lavoro, che adoro. Con il mio libro penso di aver insegnato a molti giovani, ai quali la vita ha sottoposto una dura prova, a vivere pienamente la propria esistenza. Sul mio profilo Instagram mi scrivono molti ragazzi che hanno patologie cardiache importanti oppure il diabete. Io rispondo di abbracciare la vita e lo sport con gioia. Loro si specchiano nella mia storia e ne traggono degli insegnamenti. Che poi è solo uno: never give up.



SE LA “CENTRALINA ELETTRICA” VA IN TILT

Le gravi forme di tachicardia, negli adulti over 50, sono in genere la conseguenza di patologie ischemiche o malattie coronariche. Nei giovani, invece, si instaurano inaspettatamente, da un giorno all'altro, in seguito ad alterazioni genetiche ereditate dal proprio ceppo familiare (anche se non si riesce a risalire agli antenati portatori di geni difettosi).

«Le aritmie maligne sono molto pericolose e possono risultare fatali», commenta il professor Giulio Pompilio, direttore scientifico del Centro Cardiologico Monzino di Milano.

«L'ablazione transcatetere, tesa a rimuovere l’area del muscolo cardiaco soggetta a instabilità elettrica, non sempre ha successo perché non è facile individuare con esattezza da quale zona parte il “corto circuito”. E anche quando l’ablazione viene eseguita, si preferisce impiantare comunque un defibrillatore per osservare, in un lungo periodofinestra, che il cuore non entri in fibrillazione. Nel caso di Gianluca, come in molti giovani e giovanissimi, è stato impiantato stabilmente un defibrillatore, che dovrà tenere a vita, insieme all’uso quotidiano di farmaci betabloccanti. Il defibrillatore è una “scatola” di 6X4 cm, impiantata sottocute a sinistra del torace, con un elettrodo sotto lo sterno. Il circuito che crea la “scarica” si attiva appena si registra un’aritmia maligna».



Fai la tua domanda ai nostri esperti

Articolo pubblicato sul n. 6 di Starbene in edicola e nella app dal 18 maggio 2021


Leggi anche

Interventi al cuore sotto ipnosi: in Italia è realtà

Sport e aritmia: cosa fare se il cuore perde il ritmo

Problemi cardiovascolari: le nuove terapie salvacuore