“Atto umano di autoinfliggersi intenzionalmente la cessazione della vita”: questa è la definizione ufficiale del gesto che provoca almeno l’1% dei decessi nel mondo occidentale e costituisce la seconda causa di morte per gli adolescenti (dopo gli incidenti stradali) e la nona per gli anziani.
Le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità indicano che ogni anno nel mondo 800.000 persone muoiono per suicidio; a questo dato va aggiunto poi un numero almeno 10 volte superiore di soggetti che mettono in atto comportamenti suicidari non mortali. Si ritiene peraltro che questi dati, a causa di un atteggiamento di riprovazione e negazione nei confronti delle condotte suicidarie, siano sottostimati fino al 50% dell’entità reale del problema; bisogna infine tenere conto del fatto che per ogni persona morta per suicidio almeno altre cinque avranno la loro vita compromessa emozionalmente, economicamente e socialmente.
Il “suicidio razionale”
In diverse disamine e dibattiti dei nostri giorni emerge il concetto di “suicidio razionale”, intimamente connesso alle problematiche riguardanti l’eutanasia e l’assistenza al suicidio; a prescindere da considerazioni di carattere etico-filosofico, però, almeno tre ordini di considerazioni di natura clinica si oppongono a tale concezione del suicidio.
Innanzitutto, molti studi hanno dimostrato che il suicida è “costretto” dal bisogno urgente e non rinviabile a trovare sollievo da una situazione intollerabile di vita. Inoltre quasi sempre il soggetto che vuole darsi la morte volontaria è sottoposto a una forte e soverchiante compulsione interna. Infine sono estremamente numerose le rilevazioni di una caratteristica ambivalenza nel gesto, condizioni cliniche quindi che indicano come il suicidio non possa essere considerato una “libera scelta”.
Purtroppo il suicidio è un fenomeno molto complesso e nessuno dei paradigmi scientifici (biologico, sociologico e psicologico) hanno consentito una comprensione soddisfacente del problema.
Chi è più a rischio?
Appare importante riconoscere come alcuni gruppi di popolazione (persone con contemporanea presenza di disturbi psichici, adolescenti, immigrati, reclusi, anziani) presentino un rischio suicidario più alto di quello a cui è esposta la popolazione generale: ciò permette infatti di attivare iniziative di prevenzione mirate.
Le variabili socio-demografiche associate al comportamento suicidario sono numerose: in primo luogo il sesso, che vede gli uomini nettamente più esposti (rischio da doppio a quintuplo), tanto da poter affermare che lo commettono con una frequenza media circa tre volte superiore alle donne. Per inverso il numero dei parasuicidi compiuti dal sesso femminile è di circa tre volte superiore a quello maschile.
Altre variabili sono l’età (la frequenza dei casi tende a crescere con l’avanzare dell’età, ed è massima dopo i 65 anni): in genere si ritiene che il rapporto parasuicidi/suicidi negli anziani sia di 3 a 1, mentre nei giovani tale rapporto potrebbe essere 100 a 1. In pratica, pur essendo il numero globale di suicidi e parasuicidi più basso negli anziani, la probabilità di esito fatale è molto maggiore (gli anziani sono molto più determinati a morire e scelgono metodi più violenti).
Altre variabili da tenere in considerazione sono poi l’etnia (più rischio per i bianchi), la condizione di immigrato/a e lo stato civile (il matrimonio sembrerebbe proteggere, soprattutto se si hanno figli piccoli, mentre il divorzio e la vedovanza espongono maggiormente gli uomini rispetto alle donne), la condizione occupazionale (per esempio i disoccupati; è emerso tra l’altro che nei periodi di recessione economica e disoccupazione i tassi suicidari aumentano) e la professione (più esposti medici, psichiatri, anestesisti, oculisti, musicisti, magistrati, avvocati), la religione (meno gli islamici rispetto ai buddisti, meno i cattolici rispetto ai protestanti); il clima (meno nei paesi caldi che in quelli freddi, più numerosi in primavera e autunno in accordo con la maggior frequenza di disturbi dell’umore, mentre non sono segnalati aumenti di suicidi durante le vacanze natalizie ed estive).
Tra i metodi utilizzati per darsi la morte volontaria, in Europa prevale l’impiccagione, la defenestrazione, l’inalazione di gas di scarico, il colpo d’arma da fuoco e l’annegamento; negli Stati Uniti è molto più diffusa l’arma da fuoco.
I suicidi che non riescono (parasuicidi)
Dal punto di vista terminologico, la suicidologia europea appare orientata a includere nel termine parasuicidio tutti i comportamenti suicidari non letali, senza riferimento all’intenzionalità degli stessi (spesso difficilmente indagabile a posteriori). In altre parole, il termine si trova a comprendere comportamenti che possono variare dal tentativo a esclusiva finalità manipolatoria al gesto suicidario supportato da un’effettiva intenzionalità, fino all’azione grave e solo casualmente non letale, che in tal senso corrisponde a un tentativo di suicidio in senso stretto.
L’attuale difficoltà di definizione univoca e di classificazione ufficiale delle condotte suicidarie (suicidio, tentato suicidio, mancato suicidio, parasuicidio) è testimoniata anche dalla sostanziale assenza di specifici criteri diagnostici all’interno dei più diffusi manuali medico-scientifici. I testi di riferimento non forniscono specifici criteri di inquadramento delle condotte suicidarie di per sé, che vi figurano soltanto come manifestazioni sintomatiche o complicazioni di altri disturbi psichiatrici: il manuale DSM (Diagnostical and Statistic Manual of mental disorders), per esempio, si limita a includere i gesti autolesivi, letali o no, tra i criteri diagnostici di altre categorie psichiatriche (disturbo depressivo maggiore, disturbo borderline di personalità).
L’incidenza di episodi parasuicidari risulta ovunque più elevata nel sesso femminile, con un rapporto femmine/maschi variabile da 0,7:1 a 2:1 circa; il numero maggiore di gesti parasuicidari si registra tra i 15 e i 34 anni di età, quello minore dopo i 55 anni.
Si stima che annualmente i parasuicidi in Europa siano tra 300 e 800 ogni 100.000 abitanti di età superiore a 15 anni, variando in misura significativa nelle diverse nazioni.
In uno studio avviato in sette Paesi della CEE nel 1976, si sono registrati circa 430.000 episodi di tentato suicidio su un totale di 200 milioni di abitanti, con un tasso di 215/100.000 (162 nel sesso maschile e 265 nel sesso femminile). I dati forniti presentano un’estrema variabilità tra i diversi Paesi (da 26 a 353 ogni 100.000 maschi e da 82 a 527 ogni 100.000 femmine).
La situazione italiana L’elevata variabilità relativa alla frequenza dei gesti parasuicidari tra Paesi europei rende i dati appena forniti difficilmente trasferibili nel contesto socioculturale italiano, per il quale non si hanno dati di riferimento (a parte ovviamente il numero dei casi che si concludono con il decesso del soggetto).
Il rischio di sottovalutare la reale incidenza di questo fenomeno è in ogni caso sempre presente, in quanto si stima che solo 1 su 4 dei soggetti che tentano il suicidio arriva ad avere un contatto con le strutture sanitarie ospedaliere o con il proprio medico curante.
In accordo con tali dati, si stima che più del 75% dei gesti suicidari non fatali rimanga sconosciuto alle casistiche ufficiali. Nonostante ciò, si ritiene che l’incidenza di gesti parasuicidari sia 25 volte superiore rispetto ai casi di decesso per suicidio.
Numerosi studi indicano inoltre che le condotte parasuicidarie costituiscono uno tra i più significativi fattori di rischio di decesso per suicidio, considerando che dal 30 al 60% di tali decessi costituisce l’esito di una serie di tentativi caratteristicamente ripetitivi.
Almeno la metà dei pazienti che mette in atto gesti suicidari assume, per portare a termine tale proposito, farmaci acquistati con regolare prescrizione; gli psicofarmaci sono coinvolti nell’80% dei casi di intossicazione volontaria e nel 20% dei decessi per suicidio.
Ci sono differenze di genere? Numerosi studi confermano la prevalenza del sesso femminile nell’ambito delle condotte parasuicidarie. Secondo quanto riportato, il rapporto femmine/maschi relativo alla frequenza di gesti parasuicidari è poco inferiore a 2:1. Il dato è ulteriormente confermato da uno studio multicentrico, secondo cui tale rapporto varia, nelle diverse nazioni europee, da 0,72:1 a 2,10:1, con un valore medio di 1,54:1.
Alcuni esperti osservano che l’autoavvelenamento da farmaci sembra essere la modalità maggiormente utilizzata a scopo parasuicidario dal sesso femminile: indipendentemente dall’intenzionalità suicidaria, le donne tenderebbero infatti a utilizzare mezzi dotati di un minore impatto corporeo e di un indice di letalità, almeno apparentemente, più ridotto. Al contrario, la significativa prevalenza del sesso maschile nell’ambito delle condotte suicidarie (da 3-4 a 1) è in buona parte correlata al più frequente utilizzo di mezzi dotati di elevata letalità (per esempio le armi da fuoco).
Nei soggetti di sesso femminile è stata inoltre rilevata, rispetto al sesso maschile, una prevalenza significativamente inferiore di disturbi da dipendenza da alcol e altre sostanze.
Anche la distribuzione nei due gruppi di malattie psichiatriche è risultata significativamente diversa, con una maggiore presenza di disturbi dell’umore nel sesso femminile (64% contro il 42% dei maschi) e di schizofrenia nel sesso maschile (22% contro il 10% delle femmine). A conferma di tale dato, i disturbi dell’umore, tra i più frequentemente associati a condotte suicidarie, mostrano una prevalenza più elevata nel sesso femminile e risultano spesso accompagnati da sintomi ansiosi secondari. La prescrizione di farmaci attivi nel controllare il tono dell’umore (antidepressivi e stabilizzanti) risulta ben più frequente nei pazienti di sesso femminile, giustificando almeno in parte la maggiore frequenza di parasuicidi da farmaci nei soggetti di tale sesso.
Alla luce di queste osservazioni, appare possibile ipotizzare che i meccanismi alla base delle condotte parasuicidarie siano caratterizzati da una sostanziale diversità nei soggetti di sesso maschile e femminile: su base prevalentemente impulsiva per i primi e prevalentemente affettiva per le seconde.
Alcuni dati provenienti da specifiche ricerche concordano nell’indicare che i farmaci utilizzati nel trattamento dei disturbi psichiatrici costituiscono quelli poi più spesso utilizzati con finalità parasuicidarie.
Alcuni studiosi osservano che la maggioranza delle condizioni di intossicazione da farmaci non fatali viene considerata sostenuta da una bassa intenzionalità suicidaria, e piuttosto correlata a un quadro di scarso controllo dell’impulsività o di risposta a conflittualità relazionali. I clinici tenderebbero quindi a ipervalutare gli aspetti “relazionali” e manipolatori del gesto parasuicidario da farmaci, mentre il soggetto stesso a posteriori motiva generalmente il proprio gesto con un’intenzionalità suicidaria superiore rispetto a tali interpretazioni.
Solo il 40-60% dei soggetti che giungono all’osservazione medica in seguito a un gesto parasuicidario risultano non avere una storia di tentativi precedenti. È stato osservato che i gesti parasuicidari ripetuti tendono a presentarsi in un periodo di tempo relativamente breve.
In entrambi i sessi, la ripetitività dei gesti parasuicidari tende a essere più frequente nei soggetti separati o divorziati, mentre si osserva un trend opposto in caso di soggetti coniugati.
Diagnosi psichiatrica
È noto che il 70-90% dei soggetti che mettono in atto gesti parasuicidari ha in anamnesi una storia di ripetuti contatti con i servizi psichiatrici. I disturbi dell’umore, seguiti dai disturbi da abuso di sostanze, costituiscono le diagnosi psichiatriche più frequentemente associate a condotte suicidarie e parasuicidarie. Diversi esperti concordano nell’attribuire ai disturbi dell’affettività e dell’umore il ruolo di “indicatori” più significativi di rischio suicidario, rischio che risulta proporzionale alla gravità della malattia, intesa come intensità e numero dei sintomi presenti e loro durata nel tempo. Mentre però le condotte suicidarie a esito fatale risultano associate ai disturbi affettivi unipolari, in caso di gesti parasuicidari i disturbi unipolari e bipolari risultano equamente rappresentati.
Alcune ricerche sottolineano inoltre che l’associazione tra condotte suicidarie e disturbi dell’umore è principalmente correlata alla presenza di specifici costrutti depressivi, costituiti da alcune associazioni di disturbi: anedonia (incapacità di produrre piacere) + mancanza di speranza; ansia + agitazione + panico; aggressività + impulsività.
Diverse recenti osservazioni cliniche portano tuttavia a ridimensionare il ruolo di assoluta preponderanza attribuito a tali disturbi in relazione al rischio suicidario. Viene indicato che il rischio di mortalità nell’arco della vita associato alla presenza di disturbi dell’umore, di dipendenza da alcol e di schizofrenia risulta essere, rispettivamente del 6%,7% e 4%.
Di sicuro esiste un accordo tra studiosi nell’attribuire alla schizofrenia, in particolare alla sua forma paranoidea, un elevato rischio suicidario.
In uno studio condotto su un campione di soggetti con condotte parasuicidarie, il 55% è risultato affetto da un disturbo di personalità; in particolare il disturbo borderline risultava il più rappresentato e il più frequentemente associato a intossicazione da farmaci a scopo parasuicidario.
Alcol e tossicodipendenza
Le ricerche pubblicate hanno mostrato una chiara associazione tra dipendenza da alcol e comportamenti parasuicidari e suicidari, e il 62 % dei parasuicidi è stato correlato a un abuso alcolico al momento stesso del gesto o nel periodo immediatamente antecedente.
Nel 40% circa dei soggetti in trattamento per un disturbo da dipendenza alcolica si rileva la presenza nella storia di episodi parasuicidari; nei soggetti alcolizzati, inoltre, si rileva un 5% di decessi per suicidio. Tali dati possono trovare giustificazione sia nell’azione disinibente dell’alcol, che inducendo alterazioni cognitive favorisce la messa in atto di gesti parasucidari, sia nella ricerca di un effetto additivo con i farmaci assunti che porti a un aumento della letalità degli stessi.
È nota anche la presenza di una significativa associazione tra alcolismo e disturbi depressivi, in base alla quale è possibile ipotizzare che i disturbi dell’affettività possano contribuire a determinare l’elevata incidenza di condotte suicidarie in caso di dipendenza alcolica.
Diversi dati indicano una correlazione tra l’abuso di sostanze e la maggiore frequenza di comportamenti suicidari e parasuicidari. Alcuni esperti considerano lo stesso abuso di sostanze come un comportamento dotato di valenze altamente autodistruttive e lo includono nella categoria dei suicidi cronici, riconoscendo che l’assunzione di sostanze d’abuso è in parte motivata da impulsi suicidari, anche se solo parzialmente consci.
L’abuso cronico di sostanze è spesso accompagnato da una progressiva perdita dei legami affettivo-relazionali, da una ingravescente riduzione della funzionalità lavorativa e da un conseguente isolamento sociale. Tali condizioni favoriscono l’insorgenza di vissuti depressivi e di autosvalutazione, che incrementano la probabilità di messa in atto di condotte suicidarie e parasuicidarie. Le sostanze d’abuso, così come precedentemente descritto in relazione all’alcol, possono rivestire diverse funzioni nell’ambito della facilitazione del gesto parasuicidario, ed essere utilizzate sia primariamente a scopo autolesivo sia con finalità disinibenti e accentuanti l’indice di letalità di farmaci ed alcol.
Diversi studi indicano che l’associazione tra abuso di sostanze e condotte suicidarie rientra spesso in un più ampio quadro caratterizzato da un’elevata presenza di disturbi alimentari, condotte di automutilazione ed esperienze di abuso sessuale, a testimonianza di un quadro più allargato di vissuti traumatici e disagio psichico.
Per quanto concerne la contemporanea presenza di abuso di sostanze e malattie psichiatriche, la presenza di diagnosi di depressione maggiore antecedente al disturbo da dipendenza da sostanze sembrerebbe correlata a una maggiore gravità dei gesti parasuicidari, mentre lo stesso disturbo depressivo insorto durante i periodi di astinenza da sostanze è correlato a un numero significativamente maggiore di tentativi di parasuicidio.
Si ritiene quindi utile sottolineare la necessità di una più ampia valutazione clinica e anamnestica tra i soggetti affetti da dipendenza da alcol o sostanze, non tralasciando di indagare sia la presenza di disagio psichico e socio-familiare sia quella di ideazione suicidaria.
Malattie organiche
Numerose ricerche riportano che la presenza di patologie organiche clinicamente rilevanti è associata a un elevato rischio parasuicidario e suicidario. Tale correlazione viene riscontrata principalmente in corso di patologie a carico del sistema nervoso centrale (sclerosi multipla, epilessia, delirium tremens, malattia di Huntington), insufficienza renale, tumori, malattie autoimmunitarie (lupus eritematoso sistemico, AIDS) e metaboliche come il diabete mellito.
Circa la metà dei soggetti che compiono atti parasuicidari soffre di una patologia organica cronica. Tali soggetti risultano significativamente più depressi, in particolare se intorno ai 50 anni, e caratterizzati da una recidiva della malattia cronica di cui soffrono. Il 45% dei soggetti affetti da una malattia cronica attribuisce a tale condizione il ruolo di fattore precipitante il gesto parasuicidario e circa il 20% lo considera il fattore determinante.
Ciascuna malattia che influisca sull’aspettativa di vita di un soggetto è accompagnata da inevitabili cambiamenti nella percezione di sé e del proprio ruolo socio-familiare. Il mantenimento della capacità di progettarsi nel futuro è un costrutto mentale essenziale al fine di prevenire l’insorgenza di ideazione di morte e la messa in atto di gesti suicidari.
Le caratteristiche proprie di una malattia organica correlate a un aumento del rischio suicidario consistono essenzialmente nella sua natura cronica, nell’interferenza con la funzionalità motoria e quindi socio-lavorativa, nella prospettiva di andare incontro a sofferenze fisiche e inoltre nell’imbarazzo sociale, nel deterioramento cognitivo (perdita di memoria, orientamento, capacità di giudizio e astrazione), nella perdita di autonomia, che comporta la prospettiva di dipendere da altri.
Numerose ricerche hanno evidenziato che i pazienti a più elevato rischio parasuicidario mostrano alcuni tratti caratteristici, tra cui la presenza di disturbi psichiatrici e di patologie organiche, di condotte di abuso e di dipendenza da alcol e sostanze e di un significativo disagio psico-relazionale. Tuttavia queste stesse caratteristiche costituiscono spesso un ostacolo alla creazione di un’ottimale alleanza terapeutica e rendono tali pazienti scarsamente aderenti e disponibili nei confronti delle strategie di trattamento, sia con farmaci sia con psicoterapia.
Dal parasuicidio al suicidio
Il 10% circa dei soggetti che mette in atto gesti parasuicidari decede per suicidio, a distanza di 35-40 anni dal primo episodio.
Il rischio più elevato di decesso per suicidio è da situarsi nei primi sei mesi seguenti un gesto parasuicidario e i fattori che, al momento del parasuicidio, si associano a tale rischio sono: sesso maschile, età avanzata (nel sesso femminile), presenza di disturbi psichiatrici (con particolare riferimento alla schizofrenia), presenza di disturbi organici, ripetuti episodi parasuicidari in anamnesi.
È stato inoltre riportato che i soggetti che mettono in atto ripetuti gesti parasuicidari sono esposti a un rischio di decesso per cause organiche (disordini endocrini, neurologici, cardiocircolatori e respiratori) significativamente più elevato rispetto alla popolazione generale.
Nei confronti dei pazienti che mettono in atto condotte parasuicidarie e giungono all’osservazione clinica è dunque necessario mettere in atto un programma terapeutico che comprenda sia un intervento immediato sia misure di prevenzione a lungo termine. In caso di pazienti seguiti in terapia psichiatrica che verbalizzano un’ideazione suicidaria, risulta di fondamentale importanza che gli specialisti scelgano i farmaci dotati di minore pericolosità in caso di sovradosaggio.
Rischio suicidio
Il suicidio e il tentativo di suicidio sono eventi che si possono manifestare in percentuali pari al 15% delle persone affette da depressione maggiore se non trattate farmacologicamente.
Il soggetto depresso è effettivamente una persona a rischio, e qualora esponga idee suicidarie va preso sul serio ed eventualmente accompagnato da uno specialista.Se il rischio è elevato è indispensabile il ricorso a una struttura protetta specialistica.
Accettare o in alcuni casi facilitare l’espressione di idee di morte o fantasie suicidarie può aiutare a ridimensionare il peso emotivo che tali idee comportano, a patto però di stare molto attenti a non esprimere giudizi morali. [C.M., J.S., G.C.C.]