di Elisa Capitani
Hai presente quella scena che ti ha fatto venire i brividi, o quel film che ti ha lasciata in lacrime e ti ha fatto riflettere per giorni? Non era solo intrattenimento: era un messaggio che parlava a te, in quel momento preciso della tua vita. Il cinema ha questo potere: arriva dove a volte le parole non riescono. Smuove emozioni, sblocca pensieri, cambia prospettive.
Secondo uno studio dell’University College London, guardare film aiuta a migliorare il benessere psicologico aumentando il senso di connessione sociale, la produttività e la creatività. Insomma, il cinema non è solo evasione, ma può diventare un vero e proprio alleato per il nostro equilibrio quotidiano.
Ma se imparassimo a usarlo in modo consapevole, scegliendo i film da vedere come "farmaci" per stare meglio? È proprio ciò che propone Virginio De Maio, formatore esperto in comunicazione e crescita personale, ideatore del metodo Filmatrix Infinity, un approccio innovativo che trasforma la visione dei film in una pratica di benessere.
Autore del libro Filmatrix Infinity. Accedi allo spazio di illimitata coscienza grazie ai film (Trigono Edizioni), in questa intervista ci racconta come funziona il suo metodo e perché il cinema, oggi più che mai, può diventare una vera e propria forma di auto-cura.
In che modo la visione di un film può generare benefici sul piano psicofisico, secondo la neurocinematica?
La visione di un film, se vissuta in modo consapevole, può attivare nel nostro cervello risposte sorprendenti. Le ricerche nel campo della neurocinematica hanno mostrato che alcune sequenze narrative ben costruite sono in grado di stimolare aree coinvolte nell'empatia, nella regolazione delle emozioni, nella memoria e persino nella guarigione psicofisica. In particolare, durante un film coinvolgente, l’attività della corteccia prefrontale dorsolaterale — ovvero la parte del cervello legata al giudizio, all’autocontrollo e alla valutazione critica — si riduce sensibilmente.
Questo abbassamento, chiamato ipofrontalità transitoria, permette alla mente di rilassarsi e al corpo di entrare in uno stato di equilibrio. Diminuisce il livello di stress, la frequenza cardiaca si regolarizza e aumentano le funzioni legate al sistema parasimpatico. In pratica, mentre lo spettatore è assorto nella storia, il suo sistema nervoso lavora per riportarlo verso una condizione di benessere, come se stesse praticando una forma di meditazione passiva. È un processo naturale, che avviene senza sforzo, e proprio per questo così potente.
Nel libro cita Ingmar Bergman: “Non c’è nessuna forma d’arte come il cinema per colpire la coscienza, scuotere le emozioni e raggiungere le stanze segrete dell’anima”. Come agisce il potere catartico del cinema? Che ruolo ha nella gestione delle emozioni e nello sviluppo personale?
Il cinema possiede una forza unica: riesce a parlare il linguaggio delle emozioni senza bisogno di spiegazioni. Quando assistiamo a una scena intensa, non stiamo solo guardando qualcosa, lo stiamo sentendo nel corpo, nei pensieri, nei ricordi. Questo tipo di esperienza va a stimolare parti profonde del nostro vissuto emotivo, spesso senza che ce ne rendiamo conto.
La catarsi nasce proprio da questo: dal riconoscere in una storia qualcosa che ci riguarda, e lasciare che l'emozione si manifesti, si sciolga, si trasformi. È un processo delicato, ma estremamente efficace, che può avvenire anche attraverso una sola inquadratura, un silenzio, uno sguardo. Nello sviluppo personale, il cinema si rivela quindi un alleato prezioso. Non ci impone di cambiare, ma ci offre una prospettiva diversa da cui osservare le nostre dinamiche. Ed è da quel nuovo sguardo che può nascere un cambiamento autentico.
Il metodo Filmatrix Infinity propone un nuovo approccio alla visione filmica, che diventa più attiva e consapevole
Filmatrix Infinity parte da un presupposto semplice: i film non sono solo una forma di evasione, ma una vera e propria palestra per la coscienza. L’idea è quella di guidare la visione, trasformandola in un’esperienza che stimola consapevolezza, introspezione e trasformazione interiore.
Il metodo si articola in tre fasi principali: predisposizione, osservazione e integrazione. Durante la visione, si invitano le persone a portare attenzione a ciò che accade dentro di loro: quali emozioni emergono? Quali pensieri si attivano? Quali personaggi risuonano con il proprio vissuto?
Non si tratta di analizzare il film da un punto di vista critico, ma di lasciarsi toccare con lucidità. Dopo la visione, ci si dedica a integrare ciò che è emerso, attraverso una semplice meditazione. È un processo che non richiede tecnicismi, ma una disponibilità sincera ad ascoltarsi attraverso la narrazione.
Durante la visione di un film, quindi, il cervello entra in uno stato simile a quello meditativo. È qui che si attiva il vero potere del cinema?
Sì, ed è proprio qui che il cinema rivela la sua forza trasformativa. In quello stato particolare — in cui il giudizio lascia spazio alla percezione, la mente si fa più ricettiva e l’esperienza diventa più intima — il film smette di essere solo una storia e diventa una porta. Il cervello, rilassato ma vigile, è in una condizione ideale per rielaborare vissuti interiori, affrontare nodi emotivi, e persino riscrivere alcune credenze inconsce.
Questo stato non viene forzato, né richiede tecniche complesse. È qualcosa che accade spontaneamente quando la mente smette di controllare e comincia ad ascoltare. Il cinema, in questo contesto, diventa un ambiente sicuro per lasciarsi andare a processi interiori che nella quotidianità spesso rimangono bloccati.
L’immedesimazione con i personaggi non è solo un’esperienza narrativa, ma un vero strumento di riflessione su sé stessi. Cosa accade esattamente durante questo processo?
Quando ci identifichiamo con un personaggio, accade un fenomeno straordinario: la nostra mente si "appoggia" alla sua esperienza per rileggere la nostra. Questo è possibile perché il cervello umano è dotato di neuroni specchio, che si attivano quando osserviamo un’altra persona compiere un gesto o provare un’emozione. Anche se quella persona è un personaggio fittizio, l’effetto resta.
In quel momento, l’esperienza dello spettatore si sovrappone a quella del protagonista. Questo meccanismo permette di osservare, a distanza di sicurezza, temi profondi che spesso nella vita reale facciamo fatica ad affrontare. La finzione narrativa ci protegge, ma allo stesso tempo ci coinvolge. Ed è proprio in questo spazio protetto che possiamo permetterci di vedere con più chiarezza chi siamo, dove stiamo andando, cosa ci muove davvero.
Alcune scene riescono a evocare emozioni profonde, aiutando chi guarda a sciogliere blocchi interiori. Quali elementi rendono una scena davvero potente?
Una scena funziona quando riesce a toccare una verità. Non serve spettacolarità, né effetti speciali: bastano autenticità, tempo e profondità emotiva. Quando immagine, suono e narrazione si armonizzano in un contenuto universale — come la paura, il coraggio, la perdita o il desiderio — il risultato può essere dirompente.
In quei momenti, lo spettatore non sta semplicemente guardando qualcosa. Sta sentendo, nel corpo e nell’anima, qualcosa che lo riguarda. E spesso non è neppure consapevole del perché quella scena lo colpisca tanto. È lì che si trova il potenziale liberatorio del cinema: far emergere ciò che è rimasto imprigionato dentro, senza bisogno di spiegazioni razionali.
Guardare un film diventa uno spazio sicuro dove affrontare il proprio vissuto senza esserne travolti... È anche questa una forma di terapia indiretta?
Sì, è una forma di terapia dolce, accessibile, spesso più efficace di quanto si creda. Il cinema crea una cornice protetta: permette di affrontare paure, dolori e domande esistenziali senza esporsi in prima persona. È come poter osservare sé stessi attraverso un altro, con quella giusta distanza che rende possibile l’ascolto e la trasformazione.
Nel campo psicologico si parla di rielaborazione simbolica. Il film diventa il contenitore in cui questa rielaborazione può avvenire senza forzature. Lo spettatore non è costretto a spiegare, analizzare o giustificare: gli basta lasciarsi toccare. E spesso questo basta per far scattare qualcosa dentro che prima era bloccato.
Lei sostiene che, tra tutti i generi, il dramma sembra avere una funzione particolare nel risvegliare consapevolezze. Quali caratteristiche lo rende così efficace?
Il dramma non addolcisce la realtà. La mostra nella sua complessità, nella sua bellezza spezzata, nelle sue contraddizioni. È un genere che ci obbliga a sentire, a confrontarci con la fragilità umana, con il dolore, con la perdita. Ma proprio per questo ci avvicina anche al senso.
Quando una storia drammatica è ben costruita, diventa uno specchio nitido. Ci permette di vedere il nostro stesso cammino, i nostri errori, ma anche la nostra resilienza. Il dramma non ci consola, ma ci fa compagnia nei momenti più veri. E spesso, è lì che avviene il risveglio.
“È solo un film”, si dice spesso. Eppure, le reazioni del corpo e della mente raccontano un’altra verità...
Quando il cuore accelera, le mani sudano o le lacrime scendono, il corpo sta dicendo qualcosa di chiaro: l’esperienza è reale. Anche se sappiamo che è solo una storia, il cervello reagisce come se stesse vivendo davvero ciò che vede.
Le emozioni si attivano, le memorie si risvegliano, l’identificazione è totale. Non serve che sia “vero” nel senso stretto del termine, basta che sia autentico, che parli il linguaggio delle emozioni. E quando questo accade, tutto il nostro essere si muove. Non è più finzione: è esperienza trasformativa.
Un film ben scelto, visto con la giusta disposizione interiore, può dunque diventare un momento di risveglio quotidiano. Come trasformare la visione in una pratica di benessere?
Il segreto sta nell’intenzione. Non basta accendere lo schermo: serve scegliere il film con uno scopo, guardarlo con attenzione, e soprattutto ascoltarsi durante e dopo la visione. Il momento in cui scatta una lacrima, un respiro profondo o una frase che resta dentro: quello è lo spazio in cui la trasformazione comincia.
Trasformare la visione in una pratica significa dedicare un po’ di tempo a sé stessi, in cui la narrazione diventa un alleato. Non servono tecniche complesse, basta fermarsi, guardare, sentire. Come ogni vera pratica, funziona per accumulo: piccoli risvegli, giorno dopo giorno, che diventano cambiamento duraturo.
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