Filosofia del benessere: come stare bene al di là della malattia

Esami, diagnosi, cure… I dati oggettivi non si contestano ma non sempre sono indice di malattia, secondo l’interpretazione più moderna della filosofia del benessere



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Di salute non parlano solo i medici, gli psicologi, i politici alle prese con le istituzioni sanitarie. Anche la filosofia vuole dire la sua, ed Elisabetta Lalumera, professoressa associata presso il dipartimento di Scienze per la Qualità della Vita dell’Università di Bologna, è in prima linea con il suo libro Stare bene (il Mulino). Sette capitoli dedicati all'analisi di quella domanda che tutti, prima o poi, ci facciamo: “Ma che significa stare bene?”, alla luce dei progressi della medicina e al netto di visite, esami e diagnosi.

È una riflessione a tutto tondo su come interpretare il lavoro del nostro corpo (e della nostra psiche), sempre esposto alle striscianti insidie di chi si erige a giudice del nostro stato vitale e di cosa aspettarsi dalle cure mediche. E anche, forse, per vedere i nostri malanni da un’angolazione diversa.

«Perché il concetto di salute non venga interpretato solo come assenza di malattia, secondo lo schema comune», inquadra la filosofa. «Questo è un dato che si studia negli ambulatori medici, in epidemiologia, nella ricerca. Ma è una nozione minima (ha solo una componente, cioè che rientriamo negli standard di normalità) e negativa (la definizione è nei termini di una negazione, niente malattia). Mentre la salute merita una rappresentazione più estesa e dinamica, che include anche benessere personale e qualità della vita». E la considerazione è rilevante, poiché ci può aiutare a orientarci meglio nelle valutazioni personali così come nelle scelte cliniche.


Professoressa Lalumera, la salute ha bisogno di definizioni astratte?

Sì, perché la filosofia ci permette di fare delle domande sui concetti della medicina a cui gli scienziati non riescono a dare una risposta. Loro possono scoprire i meccanismi e le terapie di una patologia, e grazie agli studi siamo arrivati a livelli altissimi di efficacia curativa. Ma la filiera terapeutica, per produrre dei risultati, deve agire su un terreno delimitato dal pensiero stesso, che prima definisce cos’è la normalità e cos’è la malattia. Infatti, la medicina è diventata nel tempo più autoriflessiva perché il ragionamento è essenziale, la premessa per fare scelte sanitarie logiche e giuste.


Da un punto di vista speculativo, cos’è la malattia?

A riguardo ci sono due grandi filoni di pensiero. Inizio dal più antico, la tradizione risalente a Cartesio che paragona gli uomini a delle macchine: quando funzionano male, sono malati. Ma la teoria meccanicistica, che nel corso dei secoli ha permesso comunque alla medicina di ottenere enormi risultati clinici, da sola non basta a definirci in buona (o cattiva) salute. Noi possiamo avere tanti piccoli malfunzionamenti, tante piccole malformazioni che indicano uno scostamento dallo standard
fisiologico di normalità – penso ai denti storti, l’alluce valgo, le articolazioni invecchiate – ma non per questo essere ammalati. In quest’ottica, la malattia diventa una questione culturale in senso ampio prima che scientifica.


Se c’è qualcosa che non va, siamo o non siamo malati?

Una cosa è la presenza di un disturbo, un’altra è l’effetto. Oggi una malattia viene considerata tale se include il danno, il disagio o la sofferenza. In parole povere, una certa condizione fisica (o mentale) diventa patologia quando ci impedisce di fare qualcosa o limita la nostra funzionalità, altrimenti è solo un’anormalità. Dal 2015, addirittura, il dibattito si è esteso anche ad alcune forme tumorali poco aggressive. Gli oncologi dicono di smettere di chiamarle “cancro” perché nella stragrande maggioranza dei casi non si evolveranno mai in qualcosa di dannoso per la persona, quindi è inutile se non deleterio trattarle troppo. La neoplasia (patologia cellulare) c’è, ma sembra compatibile con la salute di quell’individuo. È un fattore di rischio come il fumo o la sedentarietà. Sta proprio qui lo snodo, nella valutazione sia personale che clinica.


È la soggettività che mette il timbro sul certificato?

Un attimo. Nella verifica dello stato di salute di una persona, i fatti oggettivi legati al corpo e al funzionamento dei suoi vari organi rimangono e sono importanti nell bilancio finale. Ma si sta facendo largo un’idea di malattia meno medico-centrica e che cambia da individuo a individuo. Nel senso che siamo un po’ noi stessi a decidere se è malanno o meno. Quando quel problema non ci dà fastidio, non impatta negativamente sulla nostra vita non lo è.


Molto parte da dentro di noi…

Oggi la tendenza prevalente è individualizzare la normalità, in altre parole stabilendo ciò che è normale per me. Un dialogo a tu per tu che ognuno fa con il proprio organismo, con le proprie peculiarità, con la propria età, con le proprie risorse. Se anche sono, per esempio, celiaco o con un lieve mal di schiena ma nelle condizioni di poter vivere una vita affettiva, sociale, lavorativa, l’affezione diventa una caratteristica personale che riesco a compensare. Perché, nonostante tutto, ho un corpo (e una mente) che mi permette di compiere le azioni che voglio.


L’assenza di malattia s’identifica con lo stare bene in senso generico?

La mancanza di infermità è una condizione necessaria per la salute ma non basta. Insieme occorre avere anche un’adeguata rete sociale, sentirsi bene psicologicamente e dare un senso alla propria esistenza, come dice l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Si tratta di un concetto positivo che definisce la salute attraverso la presenza di qualcosa (il benessere) e non solo la mancanza (di malattia); è olistico perché si applica a tutta la persona e non alle sue parti.


Con quale prospettiva?

Molto ampia, ci consente di stare bene anche con una malattia grave, a 90 anni seduti tutto il giorno sulla poltrona e, pure, in una condizione terminale. È una situazione che controbilancia il quadro clinico e non affida solo al dottore il compito di certificare il nostro stato di benessere.


E come si misura questo benessere?

Con due parametri. Uno è quanta felicità si prova. Si muove nel campo delle emozioni e si concretizza tutte quelle volte in cui, durante la giornata, ci sentiamo contenti, soddisfatti, interessati, entusiasti. Uno spettro di sensazioni buone che non è precluso a nessuno, mai. L’altro è il raggiungimento dei propri obiettivi. Qui la performance non c’entra, c’entra solo la possibilità di trovare un modello di successo personale, collegato alle nostre azioni e relazioni. Possiamo anche non fare niente di rilevante (per l’età avanzata, per un’invalidità), ma anche in posizioni oggettivamente “difficili” le partite vinte esistono: finire il cruciverba, compiere quattro passi, sorridere di cuore se la pianta ricevuta in regalo sta crescendo bene. È troppo poco per dirsi “sto bene”? No, non lo è, è il massimo che si può fare in certi frangenti. Dove il benessere personale non è schiacciato dalla malattia cronica, grave o dalla vecchiaia. Ce lo costruiamo noi e ci autorizza ad affermare: “sto bene anche così”.


Sto bene nonostante tutto

Non è un paradosso vedere isole di felicità in una situazione obiettivamente critica? «Non voglio dire che si sta bene in malattia», dettaglia la filosofa. «Ma il modo di misurare le variazioni di salute in uno stato di malanno c’è, e ne va tenuto conto sia a livello personale che in una valutazione clinica. Perché il benessere non è un concetto assoluto, ma va sempre messo in relazione alle nostre effettive condizioni».

Ma come si indirizza la psiche a scorgere momenti di sollievo pur nella malattia? «Uno dei percorsi più seguiti è quello della psicologia positiva che dà alcuni step d’indicazione», riprende Lalumera. «Il primo, visto che è difficile essere allegri da soli, ci suggerisce di spendere tempo nelle relazioni di scambio, anche di semplice conoscenza. Poi, fondamentale è trovare i punti forti della nostra personalità in modo da mettere in campo le nostre abilità (tutti ne abbiamo almeno una, basta scoprirla) e costellare le giornate di piccoli successi, che ci fanno divertire e alzano l’umore. Un altro consiglio è considerare la propria vita come parte di un’architettura umana ampia, che sia il tifo per una squadra sportiva o l’appartenenza a una community letteraria, oppure coltivare la fede politica o religiosa. Sentirsi parte di un gruppo, respirare aspirazioni collettive ci eleva dalla quotidianità da malato, scaccia la malinconia da solitudine e dà speranza per il futuro».


Un cammino individuale

Elisabetta Lamumera aggiunge, in un capitolo significativo del suo libro, che il benessere è il fiorire della persona. «Una definizione che appartiene alla dottrina aristotelica ed è un cammino graduale e individuale. Non esiste, infatti, uno standard di fioritura uguale per tutti e nemmeno un tempo di realizzazione. I fiori possono sbocciare di colpo come poco per volta, essere tanti o pochi, grandi o piccolissimi. Di fatto, ogni fiore è diverso dall’altro. Ma la fioritura, anche se timida, non è arbitraria. Si vede, ed è sempre sinonimo di benessere. Poiché è il segno tangibile di quello che siamo e di quello che possiamo fare nella nostra condizione. E questa è sempre una testimonianza di salute, e quindi di rassicurante serenità, anche nella malattia persistente, nella disabilità, nella vecchiaia».


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