Talassemia: cos’è, sintomi, cause, cure
È una malattia genetica del sangue che altera la produzione di emoglobina, causando anemia cronica. Oggi è gestibile con diagnosi precoce, terapie tradizionali e nuove strategie genetiche e farmacologiche

La talassemia è una malattia genetica ereditaria del sangue che, nonostante le origini antiche, continua a rappresentare una sfida significativa sia per la medicina sia per la vita quotidiana di chi ne è affetto. Si tratta di un disordine che altera la produzione di emoglobina, la proteina contenuta nei globuli rossi che serve a trasportare l’ossigeno in tutto l’organismo. Il risultato è un’anemia cronica, che nelle forme più gravi richiede cure costanti e un attento monitoraggio medico.
Negli ultimi decenni, i progressi della ricerca scientifica hanno profondamente migliorato la gestione della malattia. Le trasfusioni regolari, la terapia ferrochelante e, nei casi più complessi, il trapianto di midollo osseo hanno aumentato in modo significativo la qualità e l’aspettativa di vita dei pazienti. Oggi, inoltre, le terapie geniche offrono nuove prospettive: ciò che fino a pochi anni fa sembrava irraggiungibile ora è una possibilità concreta, alimentando la speranza di una cura definitiva della talassemia.
Che cos’è la talassemia
Il termine talassemia deriva dal greco thàlassa (mare) e haîma (sangue), un chiaro riferimento alla sua ampia diffusione nelle popolazioni del bacino del Mediterraneo. «Pur essendo definita una malattia del sangue, il difetto primario risiede nella produzione dell’emoglobina, il principale componente dei globuli rossi», spiega Maria Domenica Cappellini, professore onorario di Medicina interna all’Università di Milano e relatrice al Media Tuturial “Viaggio nella Talassemia: burden, gestione clinica, cure di oggi e di domani”, in programma per il 12 novembre a Milano.
L’emoglobina è una proteina tetramerica, cioè formata da quattro catene globiniche (le unità proteiche che costituiscono la struttura dell’emoglobina): due di tipo alfa e due di tipo beta, che in condizioni normali si accoppiano perfettamente, come gli ingranaggi di una cerniera. «Nella talassemia, a causa di un difetto nei geni che regolano la produzione di queste catene, viene prodotta una quantità ridotta di uno dei due tipi di globine», specifica la professoressa Cappellini. «Questo squilibrio fa sì che una delle catene rimanga in eccesso rispetto all’altra, causando alterazioni strutturali e funzionali».
Per esempio, nella beta-talassemia – la forma più comune in Italia e nell’area mediterranea – si verifica una ridotta produzione delle catene beta e un eccesso relativo di catene alfa. Le globine alfa libere, non trovando le loro controparti, precipitano all’interno dei precursori dei globuli rossi nel midollo osseo, danneggiandoli. «Queste cellule, compromesse, muoiono prematuramente prima di maturare del tutto, riducendo così la produzione di globuli rossi circolanti e determinando l’anemia», descrive l’esperta.
Questo processo prende il nome di eritropoiesi inefficace, perché le cellule immature che dovrebbero diventare globuli rossi non riescono a completare il loro normale percorso di maturazione. Di conseguenza, il midollo osseo lavora intensamente, ma con scarsa efficienza, e la produzione di globuli rossi funzionanti risulta insufficiente.
Quali sono le cause della talassemia
La produzione delle catene globiniche, come quella di tutte le proteine del nostro organismo, è regolata dai geni che costituiscono il nostro patrimonio genetico (Dna). Ogni individuo eredita due geni beta-globinici, uno dal padre e uno dalla madre, e quattro geni alfa-globinici, due provenienti da ciascun genitore.
Affinché l’emoglobina funzioni correttamente, è necessario che l’organismo produca quantità equivalenti di catene alfa e catene beta. Tuttavia, poiché le catene beta dipendono da soli due geni, mentre le alfa da quattro, i difetti nella produzione delle prime risultano più frequenti. «Questo spiega perché la beta-talassemia sia la forma più comune e, in molti casi, anche la più grave», evidenzia la professoressa Cappellini. «Se entrambi i genitori trasmettono un gene beta difettoso, la malattia si manifesta in forma conclamata».
L’alfa-talassemia, invece, presenta un quadro genetico più complesso. Avere quattro geni alfa riduce la possibilità che tutti risultino alterati: spesso solo due o tre di essi presentano un difetto, determinando forme cliniche di diversa gravità.
Per quanto riguarda la beta-talassemia, il meccanismo di trasmissione è più chiaro. «Quando solo uno dei genitori è portatore del gene alterato, i figli ereditano la condizione in forma silente, diventando semplicemente portatori sani e non sviluppando la malattia», spiega l’esperta. «Se però entrambi i genitori sono portatori, esiste una probabilità del 25% che il figlio erediti due geni difettosi e manifesti la forma grave». Ciò accade perché la malattia è legata a difetti recessivi, ovvero si manifesta solo quando entrambi i geni beta risultano non funzionanti.
Ad oggi sono state identificate oltre quattrocento diverse mutazioni del gene beta. Alcune di queste spengono completamente la funzione del gene, impedendo la produzione delle catene beta; altre, invece, ne riducono solo parzialmente l’attività, consentendo una minima produzione residua. Questa variabilità genetica spiega anche la diversità del quadro clinico, definito fenotipo, che può andare da forme molto gravi – in cui non vengono prodotte affatto catene beta – a forme più moderate, caratterizzate da una produzione ridotta ma non assente.
Come si manifesta la talassemia
Nella forma più grave, quella definita omozigote beta-zero, i segni e i sintomi compaiono già nei primi sei mesi di vita. «Il bambino mostra segni di anemia importante, che spesso la mamma nota perché il neonato appare apatico, stanco e con scarso appetito», precisa la professoressa Cappellini. «Due indicatori principali sono anche l’ingrossamento della milza e del fegato, che diventano palpabili già nei primi mesi».
In genere, la diagnosi viene effettuata entro i primi sei mesi e la terapia con trasfusioni di sangue viene avviata subito. In alcuni bambini la malattia si presenta in forma leggermente meno severa, con valori di emoglobina attorno a 7-8 g/dl, ma oggi l’obiettivo è comunque intercettare la malattia il prima possibile e correggere l’anemia tempestivamente, per ridurre il rischio di complicazioni.
Quali sono i rischi della talassemia
Le complicazioni principali della talassemia sono di due tipi. La prima riguarda il sovraccarico di ferro dovuto alle trasfusioni regolari: il ferro presente nel sangue trasfuso non viene eliminato dall’organismo e si accumula in fegato, cuore e organi endocrini, causando gravi danni se non viene rimosso con i farmaci ferrochelanti.
La seconda categoria di complicazioni deriva dall’anemia cronica, anche quando l’emoglobina è relativamente compatibile con la sopravvivenza. Nel tempo, questa condizione può portare a problemi come osteoporosi, disturbi endocrini e altre conseguenze a lungo termine, che sottolineano l’importanza di un trattamento precoce e regolare.
Come si fa la diagnosi
La diagnosi di talassemia può iniziare già prima della nascita, se la coppia è a conoscenza di essere portatrice sana. In questo caso, è possibile offrire la diagnosi prenatale, cioè un test sul feto nelle prime settimane di gravidanza.
Per individuare i portatori sani, la procedura più semplice e diffusa è un esame del sangue, l’emocromo, che analizza i globuli rossi e l’emoglobina. Nei portatori sani, l’anemia è generalmente lieve e spesso non provoca sintomi evidenti. Tuttavia, i globuli rossi appaiono più piccoli del normale, una caratteristica chiamata microcitosi, che costituisce un segnale importante per sospettare la presenza del cosiddetto tratto talassemico.
Per confermare la diagnosi e distinguere tra le diverse forme di talassemia, si ricorre a test più specifici, come l’elettroforesi dell’emoglobina, che individua le diverse componenti dell’emoglobina e determina quali catene globiniche sono carenti. In alcuni casi, possono essere necessari anche test genetici, per identificare la mutazione precisa responsabile della malattia. Grazie a tutti questi strumenti, è possibile intercettare precocemente la talassemia, avviare tempestivamente le cure necessarie e fornire alla famiglia una consulenza genetica mirata.
Come si cura la talassemia
Le forme severe di talassemia richiedono una terapia trasfusionale continua e regolare, generalmente ogni due o tre settimane. «Durante le trasfusioni vengono somministrate due o tre sacche di sangue per mantenere livelli adeguati di emoglobina», racconta la professoressa Cappellini. «Tuttavia, le trasfusioni comportano un accumulo di ferro nell’organismo, motivo per cui devono essere sempre accompagnate da una terapia ferrochelante, indispensabile per eliminare l’eccesso di ferro e prevenire danni a organi vitali come cuore, fegato e ghiandole endocrine».
Negli anni Ottanta è stato introdotto il trapianto di midollo osseo, che rappresenta la prima vera alternativa alle trasfusioni e alla ferrochelazione. «L’intuizione alla base di questa terapia è stata quella di sostituire le cellule staminali malate del paziente, responsabili della produzione difettosa di emoglobina, con cellule staminali sane provenienti da un donatore compatibile», indica l’esperta. «In teoria, questo intervento permette di correggere definitivamente il difetto genetico, ma il trapianto presenta alcune difficoltà».
Prima, infatti, è necessario eliminare completamente il midollo osseo del paziente, attraverso un trattamento chiamato mieloablazione, per fare spazio alle cellule sane del donatore. Inoltre, il successo dell’intervento dipende dalla compatibilità tra donatore e ricevente, cioè dal fatto che i loro tessuti siano perfettamente compatibili (compatibilità HLA). «In genere, un donatore ideale è un fratello o una sorella del paziente, ma solo una piccola parte dei malati, meno del 25%, dispone di un familiare compatibile», ammette la professoressa Cappellini. «Per questo motivo, il trapianto di midollo osseo rappresenta una terapia efficace, ma possibile solo per pochi pazienti».
Negli ultimi anni la ricerca si è concentrata su nuove strategie capaci di superare il problema della compatibilità, sfruttando le cellule staminali del paziente stesso. È questo il principio delle terapie geniche e del genome editing, che rappresentano oggi le frontiere più promettenti.
La prima strategia, detta gene addition, consiste nell’inserire una copia sana del gene beta-globinico all’interno delle cellule staminali del paziente. Le cellule vengono prelevate dal midollo osseo, modificate in laboratorio mediante un vettore virale e poi re-infuse nel paziente. Una volta reinserite, iniziano a produrre emoglobina normale.
La seconda strategia, quella del genome editing, è una tecnologia ancora più innovativa basata sul sistema CRISPR-Cas9, che permette di correggere direttamente il DNA delle cellule staminali. In questo caso non si introduce un nuovo gene, ma si modificano con precisione quelli esistenti per ripristinarne la funzione o per attivarne di alternativi. «Una delle applicazioni più recenti e promettenti di questa tecnica ha ricevuto da poco l’approvazione ufficiale: si tratta di un intervento di gene editing mirato ad aumentare la produzione di emoglobina fetale», riferisce l’esperta. «Questa forma di emoglobina, normalmente presente solo nel periodo prenatale, non è affetta dal difetto genetico della talassemia. Riattivarne la produzione anche dopo la nascita può compensare la carenza di emoglobina beta, migliorando notevolmente il quadro clinico del paziente».
Accanto agli approcci di tipo genetico, la ricerca sta sviluppando anche nuove terapie farmacologiche mirate a ridurre il fabbisogno trasfusionale e a migliorare la qualità di vita. Tra queste figurano il luspatercept, che stimola la produzione di globuli rossi maturi, e il mitapivat, un farmaco orale innovativo che agisce sul metabolismo cellulare, fornendo più energia ai globuli rossi talassemici e rendendoli più resistenti alla distruzione precoce.
«Oggi lo scenario terapeutico della talassemia è in continua evoluzione», conclude l’esperta. «La combinazione di genetica, biotecnologia e farmacologia sta aprendo prospettive concrete verso trattamenti sempre più efficaci e, in futuro, verso una possibile cura definitiva».
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