Storia vera: la vita va oltre la talassemia

Flavio Soriga, scrittore, è nato con l’anemia mediterranea. Ma, come racconta a Starbene, non si è lasciato travolgere dalla malattia



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«È stato un Vietnam». Usa una metafora forte Flavio Soriga, 44 anni, scrittore sardo, affetto da talassemia, malattia ereditaria che in Italia conta 7 mila malati e due milioni e mezzo di portatori sani.

«Come in una guerra, ho visto tanti miei coetanei cadere giovanissimi. A metà degli anni Settanta, quando sono nato io, l’anemia mediterranea era una patologia mortale, io e miei amici lo sapevamo fin da piccoli», racconta Flavio. Nel suo nuovo romanzo, Nelle mie vene (Bompiani, 26 €), narra la storia di Aurelio Cossu, personaggio di fantasia che però assomiglia moltissimo all’autore.


Di trasfusione in trasfusione

Anche lui, come Flavio, è nato a Uta, un piccolo paese in provincia di Cagliari. E ancora, Aurelio Cossu, come Flavio Soriga, scrive e fa l’autore televisivo, ha una compagna e una figlia che vivono in Sardegna, mentre lui prende quattro aerei a settimana per raggiungere il lavoro. Aurelio, come Flavio, è talassemico. E nelle sue vene scorre il sangue di perfetti sconosciuti.

Le trasfusioni, infatti, sono l’unico modo per contrastare l’anemia cronica con cui si manifesta la talassemia. Con il sangue trasfuso, tuttavia, si introduce ferro, che si accumula nell’organismo, e provoca danni al fegato, malattie del sistema endocrino e cardiopatie, che in assenza di adeguate terapie chelanti segnano il destino dei talassemici.

«Le terapie negli ultimi anni si sono evolute e sono state introdotte nuove soluzioni che hanno cambiato le condizioni cliniche dei malati», spiega Raffaella Origa, pediatra della Struttura semplice dipartimentale talassemie dell’Ospedale Microcitemico di Cagliari.


Anche i figli non fanno più paura

Soriga definisce questi progressi medici come “una cavalcata eroica della pratica medica”.

«Mi ricordo di quando ero piccolo, di quell’ago lungo e di quell’infusore enorme che mi iniettava il farmaco per eliminare il ferro. Oggi ho un aghetto minuscolo sottocute e non sento niente. Eppure, all’epoca anche io ho fatto parte di quel popolo di bambini malati, tutti con visi simili, con zigomi alti, gengive scoperte, crani grandi».

Negli anni Settanta, i bimbi talassemici non potevano sperare di arrivare oltre i dieci anni di età, ma i progressi medici sono stati tali che oggi un malato di cinquant’anni ha una buona qualità della vita, mentre l’attuale generazione di trentenni talassemici ha la stessa speranza di vita dei coetanei sani. «Stiamo anche assistendo a una ripresa delle nascite di bimbi talassemici», aggiunge la dottoressa Origa.

«In Sardegna sono una decina all’anno, e sono tutte nascite consapevoli, volute dai genitori anche a fronte di una diagnosi di talassemia. Significa che la malattia non fa più paura».


0gni anno ne valgono sette

Soriga fa dire al suo personaggio: «Ho 44 anni e sarei dovuto morire quando ne avevo una decina. Ogni tanto me ne dimentico, forse è per questo che sono vissuto così a lungo, anche se 44 anni non è molto a lungo, ma per un talassemico ogni anno vale per sette, quindi più o meno ho 308 anni».

Non è la prima volta che Soriga parla di talassemia nei suoi romanzi. Lo aveva già fatto con Sardinia Blues, sempre pubblicato da Bompiani. «Credo che rifletterò tutta la vita su questa malattia per capire che cosa mi ha lasciato». Oggi Flavio, che è anche autore del programma di Rai3, Per un pugno di libri, inviato di Quelli che il calcio, e organizzatore di festival e incontri letterari, vive velocemente tra l’isola e la terraferma.

«Sono sereno, ho capito i miei limiti, e ho fatto mia la lezione della talassemia: la stagnazione non porta a niente di buono. Quindi, io mi muovo».



L'indagine

Anche se oggi è possibile una piena realizzazione della persona, non sempre è facile convivere in modo sereno con la talassemia. Secondo un’indagine svolta su 131 malati con il supporto di United Onlus - Federazione nazionale delle associazioni talassemia, drepanocitosi e anemie rare, per l’82% degli intervistati la patologia è uno “tsunami”.

Alcuni la vivono come “un buco nero che divora la forza fisica e mentale se ci si lascia andare”. Forte anche l’impatto delle cure. In un anno, i giorni trascorsi in ospedale per le terapie, per il 42% degli intervistati sono stati più di 30 nel 2018 e per il 32% tra i 21 e i 30 giorni.

Questo impegno sottrae tempo alla vita familiare o sociale (per il 56%), a sport e vacanze (51%) e all’istruzione e al lavoro (43%). La speranza di tutti è quella di poter “vivere il più a lungo possibile”.


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Articolo pubblicato nel n° 24 di Starbene in edicola dal 28 maggio 2019

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