Vai dal medico per una visita di controllo e l’esperto ti prescrive un prodotto in bustine che sembra, a tutti gli effetti, un farmaco. Ma ne sei proprio sicura? Perché potrebbe essere un dispositivo medico a base di sostanze o un integratore alimentare.
Certo, capire subito a quale delle tre categorie appartiene il rimedio suggerito non è facile. A confonderci ulteriormente le idee contribuiscono gli spot pubblicitari spesso fumosi e una normativa in materia piuttosto complessa. Per fare chiarezza abbiamo chiesto aiuto al professor Emiliano Giovagnoni, presidente di Assosubamed, l’Associazione delle aziende di dispositivi medici a base di sostanze, parte di Confindustria Dispositivi Medici, e docente a contratto presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma.
Integratori, farmaci, dispostivi medici... Dottore, forse c’è un po’ di confusione…
«Iniziamo a fare ordine allora, fissando alcuni punti fermi. Gli integratori alimentari sono prodotti pensati per le persone sane. Quando si entra in uno stato di malattia, invece, si interviene con farmaci e dispositivi medici. Quest’ultima è una categoria molto ampia (si va dalle protesi mammarie ai cerotti, agli strumenti diagnostici come le TAC ecc.) che comprende anche prodotti dalle proprietà curative come per esempio gli sciroppi per la tosse. Perciò, chi presenta delle alterazioni che non sono il risultato di una malattia si affida agli integratori, mentre negli altri casi si punta sulle altre due soluzioni. È la prima differenza, ma anche la più importante.
Faccio un esempio: se una persona in salute beve una tazzina di caffè per “tirarsi su” contrastando la stanchezza sta intervenendo su un’alterazione non patologica. Allo stesso modo potrebbe prendere un integratore a base di magnesio o vitamine. Se nella stessa condizione al posto di un integratore assumesse un farmaco, che invece è indicato per chi “è malato”, otterrebbe un effetto troppo “potente”, non adeguato al suo stato di salute e al beneficio atteso».
Gli integratori, oggi, registrano un vero boom. Ma entrando nel dettaglio, cosa sono?
«La definizione riportata sul Decreto legislativo del 21 maggio 2004, n. 169 li inquadra come prodotti alimentari destinati a integrare la comune dieta. Costituiscono una fonte concentrata di sostanze nutritive quali le vitamine e i minerali, o di altre sostanze dall’effetto nutritivo o fisiologico, in particolare ma non in via esclusiva aminoacidi, acidi grassi essenziali, fibre ed estratti di origine vegetale. Servono quindi ad aiutare la persona sana, con un apporto di tipo nutrizionale, o a supportare le funzioni fisiologiche dell’organismo, per aiutarlo cioè a mantenere la normale funzionalità».
Per quanto riguarda farmaci e dispositivi medici, invece?
«Le definizioni riportate dalle norme apparentemente sono molto simili e, in pratica, dicono che entrambi hanno un’azione curativa o preventiva. Ma la differenza importante è come la mettono in atto: il farmaco agisce su uno specifico componente dell’organismo (si dice, in gergo tecnico, con un meccanismo “farmacologico, immunologico o metabolico”), mentre il dispositivo medico lo fa in maniera diversa da tutte quelle elencate (per esempio con un effetto barriera o lubrificante). Prendiamo un inibitore della pompa protonica (rimedio utilizzato contro ulcera e reflusso): è un medicinale che agisce bloccando direttamente la cosiddetta “pompa protonica”, una proteina presente nelle cellule che rivestono lo stomaco e deputata alla produzione di acido cloridrico.
L’omeprazolo funziona un po’ come una chiave che entra in una serratura e la “blocca”. Se invece il prodotto antireflusso è una sostanza che aderisce alla parete dell’esofago e dello stomaco, creando una barriera per proteggere la mucosa dal contatto con l’acido cloridrico (ovvero un’azione “meccanica”) può essere un dispositivo medico. Chiarire questo concetto è importante perché, quando si parla di dispositivi medici si pensa subito a pace-maker, siringhe o preservativi e invece, nel momento in cui entriamo in farmacia alla ricerca di un prodotto di automedicazione, tre-quattro volte su dieci acquistiamo un dispositivo medico a base di sostanze. Pensando che sia un farmaco».
Come si capisce subito se si sta acquistando un integratore?
«In tutti e tre i casi occorre innanzitutto guardare l’etichetta, che di fatto è la carta d’identità di ogni prodotto. Per quanto riguarda gli integratori, uno degli elementi più importanti è la denominazione commerciale, cioè sulla scatola deve essere riportato “integratore alimentare”; magari scritto in piccolo, anche sul retro, ma occorre che ci sia. Già questo è sufficiente per avvertire l’acquirente che il prodotto serve per mantenere uno stato di salute, non per trattare terapeuticamente un problema. Un altro aspetto interessante è l’elenco degli ingredienti, riportati in ordine di peso decrescente: il primo deve essere quello più presente, e poi via a scalare.
Inoltre, le piante devono essere citate con il loro nome in latino ed è obbligatorio aggiungere la dose raccomandata per l’assunzione giornaliera, la quantità di sostanza nutritiva o fisiologica che bisogna assumere giornalmente per raggiungere l’equilibrio e l’effetto vantato dal prodotto. Necessari anche il termine minimo di conservazione e, molto importante, nome o ragione sociale dell’operatore del settore alimentare che lo produce. Inoltre, vanno indicate anche eventuali avvertenze che ne consigliano o meno l’utilizzo in determinate categorie di persone. Per quanto riguarda vitamine e sali minerali c’è anche la dose giornaliera massima che può essere assunta tramite un integratore, mentre piante ed estratti vegetali devono essere citati su un elenco, approvato dal Ministero della Salute, che sancisce quali si possono usare o meno».
E per dispositivi medici e medicinali?
«Nel primo caso va riportata la dicitura “dispositivo medico”, i dati relativi alle informazioni del fabbricante, l’indicazione terapeutica, la composizione, le avvertenze e le modalità d’uso, oltre al marchio CE. Sulla scatola del farmaco il marchio CE e la definizione “dispositivo medico” scompaiono, ma bisogna trovare la citazione “medicinale” e il codice AIC (codice identificativo dei medicinali ad uso umano, numero attribuito dall’Agenzia Italiana del Farmaco quando autorizza l’immissione in commercio in Italia). Inoltre, se il medicinale è vendibile senza prescrizione deve essere contrassegnato da un marchio di riconoscimento visibile sulla confezione esterna, con la scritta “Farmaco senza obbligo di ricetta”».
A proposito di indicazioni (dette anche claim), quelle degli integratori sono diverse rispetto ai farmaci e ai dispositivi?
«Sì, perché come specificato gli integratori non curano malattie, perciò è vietato citare frasi che vantino azioni curative. Per questo il claim viene prima presentato al Ministero della Salute che, se lo trova incongruente ne ordina la modifica. Un esempio: sull’astuccio delle benzodiazepine (un farmaco), possiamo trovare scritto “cura l’insonnia”. Mentre su un integratore a base di whitania somnifera, il claim può riportare “favorisce il fisiologico riposo notturno”. Inoltre, occorre che l’azione attesa sia collegata con l’ingrediente cui è legato il beneficio, che a sua volta deve essere deve essere tra quelli autorizzati per l’uso alimentare».
Molte aziende definiscono i loro prodotti naturali…
«Oggi si parla sempre più di “naturale”, e ormai quasi tutti i prodotti vengono definiti tali. Nel caso degli integratori alimentari non c’è una legge che chiarisca questo concetto. Prendiamo come esempio le vitamine: tranne alcuni prodotti a base di vitamina C, quelle disponibili sul mercato vengono ottenute attraverso processi di sintesi o semi-sintesi, perciò si agisce tramite reazioni chimiche, anche se chi acquista il prodotto, magari, vede sulla scatola la foto di una bell’arancia.
Ma se il produttore allude al fatto che quel prodotto contiene una sostanza naturale, cioè che si trova in natura e non è vero perché ottenuta chimicamente, potrebbe fare comunicazione ingannevole. Oltre alle sostanze funzionali è importante anche verificare se ci sono degli additivi chimici, quelli che all’orecchio suonano “strani”. In questo caso significa che siamo di fronte a un prodotto che non è 100% naturale e il consumatore può scegliere se acquistarlo o meno. Tenendo anche a mente l’impatto ambientale delle sostanze artificiali, un tema sempre più importante».
E come?
«I dolcificanti artificiali e i coloranti, ampiamente utilizzati negli integratori e nei prodotti farmaceutici, sono per esempio riconosciuti come contaminanti ambientali emergenti a causa della loro persistenza e diffusione. Queste sostanze spesso attraversano il corpo umano senza subire modifiche e resistono ai processi di trattamento delle acque di scarico. Ciò comporta una continua introduzione negli ambienti acquatici e potenziali effetti ambientali a lungo termine.
Ho condotto uno studio pubblicato sul Journal of Pharmaceutical and Biomedical Analysis che ha esaminato, per la prima volta, la biodegradabilità di nove integratori alimentari commerciali, sia naturali sia con dolcificanti artificiali e coloranti sintetici. I prodotti contenenti additivi artificiali, pur superando il test di biodegradazione pronta (OECD 310F), analizzati attraverso un ulteriore test, hanno evidenziato che queste sostanze non si biodegradano, evidenziando un potenziale ma significativo problema anche a livello ambientale. Il problema, però, si estende, oltre agli integratori alimentari, a tutti i prodotti farmaceutici e per la cura della persona».
Ma medicinali e dispositivi medici sono fondamentali…
«La scelta della soluzione terapeutica dipende sempre da una valutazione del beneficio rispetto al rischio atteso da parte del medico o del paziente. Oggi questa valutazione viene fatta solo rispetto alla persona, ma è opportuno allargarla anche agli effetti sull’ambiente. Sui farmaci c’è già una norma, in discussione recentemente a Bruxelles, che va a valutare l’impatto di un determinato farmaco sull’ambiente, perché si può accumulare, col rischio di ritrovarlo per esempio nelle acque.
Un problema che coinvolge molte sostanze attive ed eccipienti, come il sucralosio. Ma il tema della biodegradazione e dell'impatto ambientale deve essere letto correttamente: se un prodotto è necessario va utilizzato, non posso rinunciarvi in nome dell’ambiente. Però, nel frattempo vanno trovate soluzioni alternative. Per alcuni prodotti già esistono, per molti altri si stanno facendo ricerche».
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