Il diabete non è tutto uguale: esistono varianti di diabete di origine genetica o legate a una specifica sindrome che richiedono un approccio diagnostico e terapeutico specifico, personalizzato e multidisciplinare. Proprio per rispondere a queste esigenze è nato – presso l’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano – il nuovo Ambulatorio Diabete Raro, un centro di eccellenza dedicato a bambini e adolescenti con forme di diabete non autoimmune, spesso poco conosciute e difficili da diagnosticare.
Attraverso una valutazione approfondita e un monitoraggio continuo, il team multidisciplinare sviluppa piani terapeutici su misura con l’obiettivo di rallentare la progressione della malattia, migliorare la qualità di vita e sostenere le famiglie. Questa nuova realtà rappresenta un punto di riferimento nazionale per patologie rare come la sindrome di Wolfram, il leprecaunismo, il diabete neonatale permanente, il MODY (Maturity Onset Diabetes of the Young), la famiglia di diabeti monogenici, la sindrome di Alström e la sindrome di Wolcott-Rallison, che richiedono attenzione specialistica e trattamenti innovativi.
Cos'è il diabete non autoimmune
Il diabete non autoimmune, o più precisamente diabete monogenico, rappresenta una percentuale tutt’altro che trascurabile dei casi pediatrici. «Si stima che queste forme incidano tra il 4% e l’8% dei casi totali di diabete insulino-dipendente, spesso confusi con il più comune diabete di tipo 1», spiega il dottor Giulio Frontino, pediatra referente dell’Ambulatorio Diabete Raro dell’IRCCS Ospedale San Raffaele. «Dunque, sì: raro, ma non rarissimo. Più corretto sarebbe forse definirlo non comune, ma molto più frequente di quanto si creda».
Il termine “monogenico” fa riferimento a una mutazione in un singolo gene che compromette una delle tre principali funzioni legate all’insulina: la sopravvivenza delle cellule beta (che la producono), la produzione dell’ormone stesso oppure la risposta del recettore all’insulina. In tutti questi casi, non è il sistema immunitario ad attaccare le cellule pancreatiche – come accade nel diabete autoimmune – ma si tratta di un difetto intrinseco, genetico, che altera il funzionamento del metabolismo del glucosio.
«Nella maggior parte dei casi, queste forme di diabete richiedono comunque un trattamento insulinico, proprio perché l’insulina non viene più prodotta, oppure viene prodotta ma non ha alcun effetto», specifica l’esperto. «Tuttavia, esistono anche forme particolari in cui la beta cellula è ancora presente e attiva, per cui l’insulina viene prodotta ma non riesce a essere rilasciata correttamente nella circolazione sanguigna». In questi casi – decisamente più rari – è possibile intervenire con farmaci alternativi per stimolare la secrezione dell’ormone.
Queste sottili ma fondamentali differenze rendono indispensabile un approccio diagnostico approfondito e una presa in carico personalizzata, perché identificare correttamente il tipo di diabete significa modificare radicalmente la gestione terapeutica, migliorando la qualità di vita del paziente.
Quali sono i sintomi del diabete non autoimmune
A seconda del gene coinvolto, le forme di diabete non autoimmune possono manifestarsi in modo diverso e, in molti casi, non si limitano al solo diabete. È qui che parliamo di sindromi genetiche complesse, dove il diabete è solo una delle componenti cliniche di un quadro più articolato.
In alcune condizioni, come nella sindrome di Wolfram, il diabete si accompagna a manifestazioni neurodegenerative importanti, tra cui atrofia ottica e sordità, rendendo il decorso clinico più impegnativo e la prognosi più delicata. All’estremo opposto, esistono, invece, forme più benigne, come il MODY2, relativamente frequente in Italia, in cui la produzione di insulina non è assente ma semplicemente più lenta o inefficiente. In questi casi, spesso non è necessario alcun trattamento farmacologico e la malattia può essere gestita con un monitoraggio attento, senza ricorrere all’insulina.
«Questo ci mostra chiaramente come non tutte le forme di diabete conducano allo stesso esito clinico», evidenzia il dottor Frontino. «Si può passare da quadri molto simili al diabete di tipo 1 a forme sindromiche più gravi e multi-sistemiche, fino a condizioni lievi e stabili, che possono restare pressoché asintomatiche per anni».
A quale età insorge il diabete non autoimmune
Alcune forme esordiscono già in epoca neonatale, con sintomi gravi e immediati. Altre, invece, si manifestano solo in età adulta, spesso in modo subdolo, tanto da essere confuse con il diabete di tipo 1 o di tipo 2. «Questa eterogeneità fenotipica non riguarda solo i diversi pazienti, ma può manifestarsi anche all’interno della stessa famiglia», ammette l’esperto. «Individui portatori della stessa mutazione genetica possono sviluppare la malattia in momenti diversi della vita, con gradi di severità variabili e sintomi differenti. Alcuni potrebbero avere bisogno dell’insulina fin dall’inizio, altri no. Alcuni presentano complicazioni extra-pancreatiche, altri restano asintomatici per anni».
È proprio questa variabilità a rendere cruciale l’analisi familiare estesa. Studiare il profilo genetico non solo del paziente, ma anche dei suoi familiari, permette di individuare modificatori genetici, cioè altri geni che possono influenzare la gravità, la velocità di progressione o addirittura la comparsa stessa del diabete. «Questi dati, integrati con l’esperienza clinica, alimentano la ricerca e offrono nuove chiavi per comprendere e personalizzare il trattamento», specifica il dottor Frontino. «È un approccio che va oltre il singolo paziente e abbraccia l’intero nucleo familiare, perché spesso la chiave per capire il futuro di un bambino è scritta anche nel DNA dei suoi genitori o fratelli».
Come si arriva alla diagnosi
Vista la grande variabilità, è essenziale che il percorso diagnostico venga affidato a centri specializzati, dove ci sia esperienza nella gestione di queste forme atipiche. Le diagnosi non sono sempre immediate: soprattutto nelle forme sindromiche, dove il diabete si accompagna ad alterazioni di altri organi o apparati, il percorso diagnostico può complicarsi. Molto dipende da quale sintomo si presenta per primo. Per esempio, se il primo campanello d’allarme è il diabete, il sospetto di una forma autoimmune è immediato e si procede rapidamente con il dosaggio degli autoanticorpi. Ma se gli anticorpi risultano negativi, è lì che entra in gioco la possibilità di un diabete genetico e si apre la strada alla diagnosi differenziale.
Grazie alle moderne tecnologie, oggi è possibile con un solo prelievo di sangue analizzare un intero pannello di geni associati al diabete monogenico e sindromico: sono oltre 50 i geni noti. In questo modo si può ottenere una diagnosi precisa e, cosa ancora più importante, orientare tutto il successivo percorso clinico: dagli esami di follow-up agli interventi terapeutici, fino all’eventuale coinvolgimento in studi clinici mirati.
Ogni mutazione genetica ha implicazioni specifiche. In alcune forme, oltre al diabete, sono attese complicazioni a carico del sistema nervoso centrale, dell’udito, della vista o di altri organi. Sapere fin dall’inizio qual è la mutazione responsabile consente di costruire un piano di monitoraggio precoce e mirato, così da intervenire tempestivamente e, dove possibile, prevenire o ritardare l’insorgenza delle complicanze extra-pancreatiche.
La terapia per il diabete di origine genetica o sindromica
Come accade per tutte le patologie croniche, non si parla di guarigione, ma di una gestione consapevole, efficace e centrata sulla persona. L’obiettivo è vivere bene e a lungo, con la massima qualità di vita possibile, riducendo i sintomi controllabili e anticipando quelli potenzialmente più gravi.
In molti casi non esistono trattamenti specifici, ma grazie alla conoscenza dei meccanismi patologici è possibile valutare farmaci già esistenti, sviluppati per altre malattie, che abbiano un razionale scientifico per essere usati anche in queste condizioni. È il caso delle cosiddette terapie off label: trattamenti non ancora approvati formalmente per queste patologie, ma potenzialmente utili e sicuri, se somministrati con criterio e sotto stretta sorveglianza clinica.
Un esempio emblematico è la sindrome di Wolfram, per la quale negli ultimi anni si sono aperti nuovi scenari terapeutici proprio grazie alla ricerca traslazionale. L’obiettivo non è solo curare, ma rallentare la progressione, migliorare la stabilità clinica e aumentare la qualità di vita, anche laddove una terapia risolutiva non sia ancora disponibile.
In medicina, l’evoluzione è costante, anche se – com’è naturale – le forme più comuni di malattia ricevono maggiore attenzione e risorse. Tuttavia, oggi qualcosa sta cambiando. Le malattie rare stanno finalmente conquistando lo spazio che meritano, anche grazie all’impegno crescente della comunità scientifica internazionale.
Negli ultimi anni si è registrato un significativo aumento di progetti di ricerca, consorzi europei e congressi dedicati. L’IRCCS Ospedale San Raffaele partecipa attivamente a queste iniziative, ad esempio attraverso l’ERN (European Reference Network) per le malattie rare, una rete che collega i principali centri europei specializzati. Questo lavoro in sinergia consente di condividere dati, esperienze cliniche e approcci terapeutici su scala globale.
«Oggi, le terapie off label rappresentano una strategia temporanea, in attesa di trattamenti mirati e definitivi», anticipa il dottor Frontino. «Ma è una strategia che ha già dato risultati incoraggianti, resa possibile grazie a un coinvolgimento attivo delle famiglie e al loro consenso informato: ogni prelievo, ogni analisi genetica, ogni dato clinico raccolto contribuisce alla costruzione del sapere collettivo su queste patologie».
Nel futuro prossimo, la strada si muove su due fronti: l’identificazione di molecole farmacologiche già esistenti, ma da riposizionare in base a evidenze scientifiche, e lo sviluppo di approcci innovativi, come la terapia genica, oggi ancora sperimentale ma sempre più promettente per le forme di diabete monogenico. «Lavorare in profondità sul materiale biologico dei pazienti e delle loro famiglie ci consente di svelare i meccanismi più nascosti della malattia», conclude l’esperto, «e di trasformare quella che oggi è solo una gestione clinica in un vero percorso verso soluzioni terapeutiche durature. È un orizzonte che non è più solo speranza, ma una possibilità concreta e sempre più vicina».
Fai la tua domanda ai nostri esperti