Tra le manifestazioni precoci della malattia di Alzheimer c’è il cosiddetto disorientamento topografico. Non si tratta di dimenticare occasionalmente dove si è parcheggiata l’auto o di confondersi in una strada che si percorre per la prima volta durante una giornata stressante. Qui parliamo di una difficoltà che si ripete nel tempo: il paziente fatica a ritrovare la strada di casa oppure a orientarsi in luoghi poco conosciuti, soprattutto quando la malattia inizia a indebolire fortemente le competenze legate all’orientamento nello spazio.
È come se il cervello, all’improvviso, avesse bisogno di ripristinare una mappa che prima gestiva senza pensarci. Questi segnali, spesso sottovalutati, possono comparire insieme ai primi problemi lievi di memoria, nelle fasi iniziali della malattia e rappresentano un campanello di allarme importante.
Cosa succede nel cervello
Il disorientamento topografico ha radici precise nel funzionamento cerebrale. «In particolare, a esserne interessato, oltre a vari distretti cerebrali, è il lobo temporale mediale, l’area del cervello che ci aiuta a ricordare le cose e a muoverci nello spazio», spiega il dottor Davide Maria Cammisuli, già ricercatore premiato da Airalzh - Associazione Italiana Ricerca Alzheimer e professore a contratto presso la Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica dell’Università Cattolica di Milano.
«Quando questa e altre aree dell’encefalo iniziano a deteriorarsi, come avviene nelle prime fasi di deterioramento cognitivo lieve dovuto alla malattia di Alzheimer, il cervello fatica a creare e recuperare la mappa mentale dei luoghi che percorre. Così, circuiti che una volta erano familiari diventano più complicati e ritrovare la strada di ritorno quando si affrontano percorsi non noti può trasformarsi in un vero rompicapo».
Una dimenticanza occasionale non deve destare preoccupazione. Ma quando i momenti di disorientamento diventano frequenti e interferiscono con la vita quotidiana, allora il segnale va preso sul serio.
«I primi segnali del decadimento delle funzioni di orientamento può avvenire già nello stadio del declino cognitivo lieve», precisa Cammisuli. «In questa fase i pazienti possono già presentare i biomarcatori tipici della malattia, cioè una concentrazione anomala di alcune proteine nel liquido cerebrospinale rinvenibili tramite esami specifici, a cui seguono le prime alterazioni neuropsicologiche rilevabili, anche se i sintomi non sono ancora molto marcati».
È proprio in questa fase che alcuni pazienti cominciano a mostrare difficoltà nell’orientarsi in percorsi nuovi: spostarsi da un punto A a un punto B dello spazio può risultare relativamente semplice, ma il grosso problema emerge quando si deve tornare indietro, riconoscendo i punti di riferimento e ricostruendo mentalmente la strada percorsa a ritroso.
Disorientamento topografico, cosa accade nella quotidianità
La difficoltà emerge soprattutto nei contesti poco conosciuti. «Non si tratta di perdersi nella piazza del paese», chiarisce l’esperto, «ma di perdere sicurezza in ambienti non abituali, dove il cervello non può contare su memorie consolidate. In questi scenari i pazienti iniziano a fare più errori, per esempio mostrando svolte sbagliate destra-sinistra nel percorso a ritroso o presentando veri e propri momenti di esitazione con interruzione della marcia».
Questo tipo di disorientamento topografico rappresenta un segnale piuttosto caratteristico dell’Alzheimer perché colpisce in modo diretto le aree cerebrali responsabili della memoria e dell’orientamento spaziale. A differenza di altre forme di demenza, che tendono a presentarsi con altri sintomi, nell’Alzheimer la difficoltà emerge nella rappresentazione dello spazio: riconoscere i percorsi, muoversi correttamente all’interno di essi e ritrovare la strada diventano sfide più complesse.
Uno studio per indagare il problema
Per approfondire il fenomeno, AirAlzh ha finanziato uno studio innovativo, presentato dal ricercatore. «Abbiamo invitato pazienti con declino cognitivo lieve e biomarcatori per l’Alzheimer a esplorare un giardino pubblico di Milano», spiega il dottor Cammisuli. «Il giardino, situato tra il Pontificio Istituto Missioni Estere e l’Istituto Auxologico Mosè Bianchi, era completamente nuovo per i partecipanti, così da evitare qualsiasi familiarità che potesse influenzare i risultati».
Durante l’esperimento all’aperto ai pazienti è stato chiesto di seguire un breve percorso insieme ai ricercatori e poi di ripeterlo autonomamente. L’obiettivo non era solo ricordare la strada, ma anche riconoscere i cosiddetti “landmark”, ovvero i punti di riferimento nello spazio – una fontanella, una statua, un albero particolare o un cestino – che, nella vita di tutti i giorni, aiutano inconsapevolmente ciascuno di noi a orientarsi e a ritrovare la via di casa dopo una passeggiata.
È proprio durante la fase di ritorno che sono emerse le maggiori difficoltà. «Portandoli da un punto A a un punto B dello spazio di questo giardino pubblico, i partecipanti riuscivano spesso a completare correttamente il percorso da soli quando si chiedeva di ripeterlo pedissequamente a ritroso», racconta Cammisuli, «ma il vero problema si manifestava quando chiedevamo ai pazienti di individuare una strada di ritorno alternativa a quella appresa con i ricercatori, simulando un potenziale smarrimento».
A quel punto, i ricercatori hanno notato che i pazienti commettevano numerosi errori rispetto ai soggetti sani con cui li hanno confrontati, come imboccare strade sbagliate o perdere improvvisamente il senso dell’orientamento. Questi risultati hanno permesso di confermare che il disorientamento topografico può manifestarsi già nella fase precedente della demenza associata alla malattia di Alzheimer, quando i sintomi sono ancora lievi e facilmente sottovalutati, spesso accompagnando i primi problemi di memoria.
Un aiuto hi-tech per orientarsi
Lo studio ha previsto l’uso di un dispositivo wearable, un corpetto tecnologico chiamato Howdy Senior, sviluppato da ComfTech, azienda italiana specializzata in soluzioni di comfort tecnologico. «Questo body è dotato di sensori in grado di rilevare parametri fondamentali come frequenza cardiaca e respiratoria, postura e movimenti del corpo nello spazio», spiega l’esperto. «In particolare, grazie a un accelerometro posizionato all’altezza dell’ombelico, il dispositivo registra cambi di passo, andatura e altri indicatori legati alla deambulazione».
La vera novità è che il dispositivo può essere monitorato da remoto, non solo dai ricercatori, ma potenzialmente anche dai caregiver, cioè dai familiari che assistono la persona malata. In prospettiva, il body – collegato a un’applicazione per smartphone – potrebbe essere in grado di avvisare i parenti qualora il paziente cominci a mostrare segnali di disorientamento. «Va però sottolineato che, al momento, questa parte di ricerca è ancora in fase di sviluppo e deve essere perfezionata per diventare pienamente funzionale e pronta per un utilizzo quotidiano sicuro ed efficace», precisa il dottor Cammisuli.
Immaginiamo la scena: un figlio riceve sullo smartphone una notifica che segnala un’anomalia nei parametri fisiologici e di marcia del padre anziano, che potrebbero presagire un episodio di disorientamento. In quel momento, può chiamarlo immediatamente per assicurarsi che stia bene o raggiungerlo, evitando che una semplice passeggiata si trasformi in un potenziale rischio.
«È chiaro che l’uso di queste tecnologie apre anche questioni delicate legate alla privacy e alla libertà personale», osserva l’esperto. «Quanto è giusto “sorvegliare” una persona, anche se malata? È una riflessione simile a quella che già facciamo con le app di geolocalizzazione per i figli. Ma nel caso di un paziente con Alzheimer, così come per i nostri ragazzi, la bilancia pende dalla parte della sicurezza: un supporto del genere non rappresenta un limite alla libertà, bensì una garanzia concreta che permette alla persona di muoversi in autonomia senza correre rischi».
Guardare avanti con ottimismo
Peraltro questo studio apre la strada a interventi concreti. Oltre alla fase sperimentale sul disorientamento spaziale, il gruppo di ricerca ha voluto verificare se fosse possibile agire precocemente attraverso programmi di riabilitazione cognitiva. «Un sottogruppo di pazienti ha partecipato a un percorso di training con software specifici, pensati per stimolare la memoria e le capacità di orientamento nello spazio», riporta il dottor Cammisuli. «Abbiamo realizzato dodici sessioni di esercizi computerizzati, concentrati sulla navigazione spaziale e sull’attenzione. I risultati, pubblicati di recente, hanno mostrato miglioramenti significativi, dimostrando che alcune abilità possono essere potenziate e il processo di deterioramento rallentato».
L’obiettivo non è fermare la malattia – ancora un traguardo lontano – ma ritardarne l’evoluzione, regalando ai pazienti anni preziosi di maggiore autonomia e qualità della vita. «E non si tratta solo del malato», assicura l’esperto. «Con l’Alzheimer soffrono indirettamente anche i caregiver, spesso esposti a stress cronico e burnout. Intervenire precocemente significa proteggere la persona e, allo stesso tempo, ridurre il carico familiare e sociale».
Se applicato su larga scala, un approccio di questo tipo avrebbe anche un impatto economico importante. «Ridurre la perdita di autonomia e il bisogno di assistenza continua contribuisce a contenere i costi sociali e sanitari di una malattia che oggi pesa in maniera considerevole sul sistema assistenziale», conclude l’esperto.
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