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Troppi errori al Pronto Soccorso

Daniele Coen ha lavorato per più di trent’anni in medicina d’urgenza e ora racconta in un libro tutti i retroscena dei nostri E.R. pubblici. Per spiegare quando, dove e perché i medici sbagliano

credits: iStock



Daniele Coen ha lavorato in Pronto Soccorso per 35 anni, di cui 15 come responsabile del PS e della medicina d’urgenza dell’ospedale Niguarda di Milano. Oggi, a 66 anni, è felicemente in pensione, “perché fare l’urgenza è meraviglioso ma logorante”: sempre in prima linea, fra turni spossanti, notti in piedi e weekend quasi mai liberi. Ora insegna ai colleghi e, soprattutto, scrive. Il suo libro Margini di errore, perché i medici sbagliano, già dal titolo ci dice che non ha peli sulla lingua.


I suoi colleghi non amano parlare di errori: perché lei ha deciso di farlo?
Perché se ne fanno troppi. La chiave di volta è la comunicazione: i medici devono imparare a parlarne, innanzitutto ammettendoli. Non solo perché è giusto farlo o perché dobbiamo sempre ricordarci che “se io fossi dall’altra parte vorrei sapere” ma, soprattutto, perché solo ammettendo e condividendo gli sbagli si può trarre l’insegnamento per evitarli e crescere.


Quanti errori si fanno in PS?
Uno studio americano ha fatto un esperimento interessante: a ogni medico di un grande Pronto Soccorso è stato affiancato uno studente di medicina il cui compito era osservare e chiedere allo specialista di turno, ogni ora, se e quanti errori aveva fatto. Risultato: in una settimana gli sbagli erano stati 346, dal farmaco dimenticato alle annotazioni sulla cartella del paziente non corretto, ma solo in pochi casi c’erano state conseguenze. Le cifre di questo esperimento sono un buon metro di paragone.


Perché si sbaglia? Negligenza, fretta o sovraffollamento?
Gli studi sull’argomento parlano chiaro: più gente c’è in PS più si sbaglia. Il sovraffollamento è quindi una grande fonte di errore: pensate che un medico d’urgenza in genere segue 15 persone contemporaneamente, saltando da un paziente all’altro e cambiando in continuazione priorità e urgenze; alla fine può sbagliare. Il passaggio di consegne, poi, è un momento delicatissimo: nel libro faccio l’esempio del telegrafo senza fili, il gioco passaparola nel quale il primo giocatore dice un termine difficile all’orecchio del vicino che lo passa agli altri fino all’ultimo: è così che il pace maker diventa black & decker. Ogni passaggio di turno e di consegne in qualche modo riduce la qualità e la quantità dell’informazione che ottiene il medico successivo. E all’ospedale Niguarda, solo al mattino, il passaggio di consegne andava fatto per 50 pazienti almeno.


Si fanno tanti errori al momento del ricovero, cioè nella fase di triage e di assegnazione del famoso codice?
Il triage non è esente da errori ma funziona bene perché il suo compito non è fare la diagnosi finale giusta, ma assegnare il fattore di rischio del paziente appena arrivato, sulla base di parametri codificati. Gli infermieri che lo gestiscono sono la spina dorsale del reparto. Piuttosto il problema del triage sono i tempi di attesa che lo seguono, legati al sovraffollamento ma anche ai troppi esami che si fanno.


Perdete troppo tempo con gli esami? Perché? Non sono una sicurezza in più?
Se ne fanno troppi e, sempre per risparmiare tempo, spesso si richiedono tutti insieme anziché in sequenza, come sarebbe più corretto. E non dobbiamo nasconderci che alcuni esami vengono fatti come medicina difensiva, per proteggersi cioè da eventuali cause giudiziare e per la paura di sbagliare. Ciò espone anche di più al rischio di falsi positivi, cioè di diagnosi di malattia che sono infondate ma che preoccupano i pazienti. E poi ai raggi: una tac al torace con mezzo di contrasto equivale a 800 radiografie al petto. Anche se è vero che il rischio di sviluppare un tumore provocato dalle radiazioni è modesto (e cala crescendo l’età del paziente), questo pericolo non è zero e andrebbe evitato.


Quali sono gli errori non legati all’organizzazione che temete di più?
Temiamo le cosiddette presentazioni atipiche, cioè i casi che non hanno i sintomi classici. Per esempio, tra gli anziani con infarto, il 20% non ha dolore. Facciamo l’elettrocardiogramma? Il 40% degli infarti acuti all’esordio non dà segnali utili sull’ecg. Anche la dissezione dell’aorta, una malattia acuta del cuore, che di solito dà dolore fortissimo, nel 10% dei casi non lo presenta. Per fortuna è rara, un medico di PS ne vede in media una ogni 4 anni, ma proprio per la sua rarità e anomalia nei sintomi quando ti capita rischi di non diagnosticarla.


Come si rimedia quando i sintomi sono confusi e discordanti?
Con l’esperienza e con i protocolli clinici. Ecco perché la medicina d’urgenza è una specialità e non la può fare un medico internista qualunque o un chirurgo, per quanto bravi siano. I giovani medici dovrebbero fare tutti almeno qualche anno di PS, anche se poi sceglieranno una specialità diversa.


Ultima domanda: c’è omertà fra di voi?
Di fronte allo sbaglio degli altri c’è ancora chi preferisce stare zitto, ma per fortuna la maggior parte interpella il proprio capo, soprattutto se la mancanza è grave e reiterata.


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Articolo pubblicato sul n. 7 di Starbene in edicola dal 28 gennaio 2020


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