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Parto: meno cesarei e rischi di ipossia con il nuovo monitoraggio

Grazie a un nuovo strumento (si chiama Stan) capace di individuare con più facilità e precisione i casi di ipossia e sofferenza fetale, il momento del parto può essere meno rischioso

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Il parto è un bell’impegno per il bebè, che ha bisogno di tutte le sue energie e dell’ossigeno che gli arriva attraverso la placenta. Se questa non funziona bene, si rischia l'ipossia, con conseguenze permanenti a carico del cervello.

«Oggi, però, c’è un nuovo strumento in grado di segnalare se il bambino va in ipossia, cioè carenza d’ossigeno, e c’è una sofferenza fetale da affrontare con urgenza», spiega il dottor Gianluca Straface, responsabile del reparto di ostetricia e ginecologia del Policlinico di Abano Terme (PD).

«Si chiama Stan (acronimo per ST-Analysis) ed è una tecnologia che, dai Paesi del nord Europa, si sta affermando anche nei nostri centri più all’avanguardia. Abbina la cardiotocografia tradizionale (la registrazione del battito del cuore del piccolo e delle contrazioni uterine) con l’elettrocardiogramma del nascituro: non appena il collo dell’utero è sufficientemente dilatato, gli viene applicato sulla testa (in modo indolore) un sensore che registra ogni alterazione nel funzionamento del suo cuore».


I campanelli d’allarme

«La cardiotocografia tradizionale segnala una possibile ipossia solo sulla base di anomali rallentamenti nel battito cardiaco del piccolo, ovvero quelli che durano più dei 40-60 secondi, nei quali la contrazione uterina comprime i vasi sanguigni della placenta e rende il piccolo “normalmente” bradicardico», spiega il dottor Straface.

«Ma anche i rallentamenti che durano più del dovuto non sono sempre il campanello d’allarme di una sofferenza fetale. Alcune decelerazioni sono innocenti. È quel che capita, per esempio, quando il bebè si incunea nel canale del parto: la compressione del cranio innesca un riflesso del sistema nervoso autonomo che rallenta le pulsazioni anche se la quota di ossigeno è perfetta.

Proprio su questo fronte interviene lo Stan, che permette di distinguere le decelerazioni a rischio da quelle innocenti: quelle pericolose fanno registrare sull’elettrocardiogramma il tratto S-T, un lungo intervallo che segnala l’ipossia del cuore e, di conseguenza, del cervello.

Lo strumento dà quindi modo di capire quando è davvero necessario intervenire con un parto cesareo od operativo (con la ventosa, per esempio). Per questo l’utilizzo dello Stan, oltre a ridurre del 75% il numero di bambini nati con danni da carenza di ossigeno, ha abbattuto anche del 50% il numero di cesarei (che nel nostro Paese sono il 35-38% dei parti), evitando quelli effettuati solo nel sospetto di una sofferenza fetale, quindi inutili».


Un beneficio in più per le gravidanze difficili

I piccoli che rischiano maggiormente una carenza d’ossigeno durante il travaglio sono quelli con una gravidanza difficile (per la presenza di una gestosi o di un diabete gestazionale materno, per esempio), ma proprio nei loro confronti lo Stan rappresenta una protezione in più: uno studio effettuato dall’Unità operativa di ostetricia e ginecologia del Policlinico di Abano Terme, pubblicato su The Journal of Maternal–fetal & Neonatal Medicine, ha dimostrato che anche questi bebè più fragili, se monitorati con la nuova metodica, al momento della nascita hanno un indice di Apgar (il “voto” che viene assegnato valutando anche il funzionamento del cuore e la respirazione) identico a quello dei piccoli la cui gravidanza è stata fisiologica e senza problemi. Dopo il parto, non hanno quindi bisogno di dover essere sostenuti con tecniche di rianimazione.


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Articolo pubblicato sul n. 38 di Starbene in edicola dal 5 settembre 2017



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