Genetica

Scienza che studia l’ereditarietà, normale e patologica. La genetica analizza e permette di prevedere la trasmissione dei caratteri ereditari, la quale obbedisce ad alcune leggi, scoperte alla fine del XIX secolo dal botanico austriaco Gregor Johann Mendel. L’avvento della biologia molecolare, alla fine degli anni ’50 del secolo scorso per i batteri, all’inizio degli anni […]



Scienza che studia l’ereditarietà, normale e patologica. La genetica analizza e permette di prevedere la trasmissione dei caratteri ereditari, la quale obbedisce ad alcune leggi, scoperte alla fine del XIX secolo dal botanico austriaco Gregor Johann Mendel. L’avvento della biologia molecolare, alla fine degli anni ’50 del secolo scorso per i batteri, all’inizio degli anni ’70 per gli eucarioti (esseri viventi, compresi i mammiferi, le cui cellule sono dotate di nucleo), ha permesso di analizzare la struttura molecolare e l’organizzazione dei geni, i meccanismi della loro espressione e le loro alterazioni.

Attualmente i genetisti si occupano in particolare dei caratteri complessi (che dipendono da numerosi geni), e le loro ricerche permettono lo studio dei fattori di predisposizione genetica a malattie comuni (per esempio diabete, asma, psoriasi).


I primi passi della genetica

Già secoli prima dell’era cristiana, i greci avevano supposto che alcune caratteristiche fisiche degli individui, oggi chiamate caratteri, si trasmettessero dai genitori ai figli. Tuttavia fu necessario attendere la metà del XIX secolo perché, con gli studi di Gregor Mendel (1822-1884), venissero enunciate le prime leggi che regolano la trasmissione ereditaria (1865).


Le scoperte di Mendel

Le ricerche di Mendel consistevano nell’incrociare piante di pisello di colori e forme diverse e nell’osservare le caratteristiche degli esemplari ottenuti da una generazione all’altra. Dagli esperimenti di Mendel derivano due delle nozioni cardine della genetica: da una parte, i concetti di fenotipo (insieme dei caratteri fisici e biologici di un individuo) e genotipo (insieme dei caratteri scritti nel patrimonio genetico di un individuo, che si traducano o meno nel suo fenotipo); dall’altra, quelli di carattere dominante (che per manifestarsi nel bambino deve essere trasmesso da un solo genitore) e recessivo (che per manifestarsi nel bambino deve essere trasmesso sia dal padre che dalla madre). Tuttavia, le leggi dell’ereditarietà enunciate da Mendel caddero nell’oblio e furono riscoperte solo grazie ai lavori dello statunitense Thomas Morgan (1866-1945).


DNA: 100 anni di storia

L’esistenza dei cromosomi (elementi del nucleo della cellula a forma di bastoncello e organizzati in coppie, visibili soltanto durante la divisione cellulare) era nota già dalla fine del XIX secolo, ma all’epoca non era stato dimostrato che essi contenessero l’informazione ereditaria. I lavori di Mendel hanno permesso di appurare l’esistenza di elementi che condizionano la trasmissione e la manifestazione dei caratteri ereditari: i geni. Alla fine del primo quarto del XX secolo, una prima associazione di queste due scoperte fu stabilita da Morgan, che dimostrò la localizzazione dei geni sui cromosomi.

Nel 1944 tre biologi statunitensi, Avery, Mac Leod e Mac Carthy, scoprirono che la molecola responsabile della trasmissione dei caratteri ereditari era la molecola dell’acido deossiribonucleico (DNA). In realtà, il DNA era già noto, seppure indirettamente, dal 1889, anno in cui una sostanza chiamata acido nucleico fu estratta dal nucleo. La sua composizione fu analizzata nei primi decenni del XX secolo, ma i particolari della sua organizzazione furono chiariti solo nel 1953 da due biologi britannici, James Watson e Francis Crick. Essi dimostrarono che la molecola di DNA è costituita da due filamenti, ciascuno dei quali è formato da una lunga catena di molecole di acido fosforico e deossiribosio alternati. A ciascuna molecola di deossiribosio è associata una delle quattro sostanze dette basi: adenina (A), timina (T), citosina (C) e guanina (G). Le due catene sono avvolte a elica l’una intorno all’altra e collegate a livello delle basi. Questo modello spiega non solo come l’informazione venga codificata all’interno dei geni, ma anche come sia possibile trasmettere tale informazione da una generazione all’altra.


L’informazione genetica

La molecola di DNA è quindi costituita da una concatenazione di basi. Il principio della codifica dell’informazione è lo stesso delle lingue e l’insieme dei geni di un individuo, detto genoma, può essere paragonato a un romanzo. Il “linguaggio” dei geni è basato sulla combinazione di quattro lettere, le basi ATGC, e il loro ordine forma le “parole”, rappresentate dai geni stessi. Così come un errore di ortografia può cambiare il senso di una parola, e quindi quello del messaggio, allo stesso modo una mutazione può alterare l’informazione di cui il gene è portatore: tale modifica si traduce in una malattia genetica.

Ogni carattere è dato da una proteina, concatenazione di piccole molecole dette aminoacidi di cui esistono 20 tipi. L’informazione necessaria per la costituzione di questa proteina è contenuta nel gene preposto alla sua sintesi, ma l’alfabeto dei geni non coincide con quello delle proteine (formato da 20 “lettere”), ed è quindi necessario effettuare una decodifica dell’informazione contenuta nei geni. Tale operazione viene svolta dalla cellula in due fasi, dette trascrizione e traduzione. Nel corso della prima fase, all’interno del nucleo cellulare si effettuano copie dell’informazione contenuta nel gene; tali copie sono costituite da un acido nucleico (l’RNA, acido ribonucleico) che presenta lievissime differenze rispetto al DNA. L’RNA fabbricato, detto RNA messaggero, esce dal nucleo e raggiunge il citoplasma della cellula. A questo punto ha luogo la fase di traduzione, in cui l’informazione viene letta e decodificata per la fabbricazione della proteina corrispondente.

La molecola di DNA, strutturata in due catene complementari, può replicarsi e dare origine a due molecole figlie identiche in tutto e per tutto. Secondo la legge detta della complementarità, l’A di un filamento può associarsi solo a una T dell’altro, e lo stesso avviene per la G e la C. La cellula è dotata di un sistema che permette di separare i due filamenti di DNA e di fabbricare filamenti complementari a quelli disciolti, ponendo le A di fronte alle T, e le G di fronte alle C. Questo fenomeno, detto replicazione, dà origine a due molecole del tutto identiche a quella di partenza.

La genetica molecolare, una straordinaria speranza Le leggi della genetica formulate da Mendel permettevano di fare previsioni statistiche riguardo all’insorgenza di una malattia ereditaria in seno a una famiglia, ma non di avanzare previsioni individuali, potevano cioè determinare un rischio, ma non cioè dare certezze. Queste si sarebbero ottenute solo con l’esame non già del fenomeno (il soggetto è affetto dalla malattia?), ma del genotipo (la mutazione responsabile della malattia è presente nei suoi cromosomi?).

A partire dalla metà degli anni settanta del secolo scorso lo sviluppo delle tecniche di biologia molecolare (clonazione, lettura delle sequenze di basi, modifica e correzione del messaggio genetico ecc.) ha permesso di studiare in dettaglio la molecola di DNA, costitutiva dei geni. L’insieme di queste tecniche va sotto il nome di genetica molecolare.

Per alcune malattie ereditarie in cui il gene responsabile è stato isolato, è oggi possibile proporre alle coppie interessate la ricerca nel feto del difetto genetico in causa (diagnosi genotipica prenatale).

I progressi della genetica molecolare lasciano sperare che un giorno si arriverà a isolare la totalità dei geni responsabili delle malattie genetiche (più di 5000, secondo i calcoli). Si potrà allora formulare una diagnosi prenatale di tutte queste malattie, e forse ottenerne la guarigione definitiva sostituendo in ogni cellula il gene alterato con la sua copia normale (terapia genica). L’identificazione del gene coinvolto non è comunque sufficiente perché una malattia si presti a un tentativo di terapia genica. Allo stato attuale della tecnologia, occorre che questa patologia sia conseguenza di un difetto relativo a un unico gene, che questo non sia preposto alla sintesi di una proteina tossica per l’organismo e che siano noti i fattori coinvolti nella sua attività. Il primo tentativo di terapia genica, realizzato nel 1990 dagli statunitensi French Anderson e Michael Blaese, ha avuto per oggetto una malattia genetica assai rara, caratterizzata dalla mancata produzione di un enzima, l’adenosina-deaminasi (ADA). Poiché questo fenomeno determina un grave deficit immunitario, il gene mancante è stato introdotto nei linfociti del malato, trasportato da un retrovirus inoffensivo per l’uomo.

Un altro tentativo di terapia genica riguarda il trattamento del cancro: negli Stati Uniti, Steven Rosenberg ha sperimentato, in un paziente affetto da melanoma (cancro della pelle), un “vaccino antineoplastico”, costituito da cellule tumorali prelevate dal paziente e coltivate introducendovi un gene, il fattore di necrosi tumorale (TNF, Tumor Necrosis Factor). Queste cellule, una volta reiniettate, provocherebbero una reazione immunitaria di difesa contro le cellule neoplastiche.


Genetica e problemi etici

Lo sviluppo della genetica molecolare ha suscitato accesi dibattiti, che vertono in particolare sul rischio di eseguire pratiche di tipo eugenetico. L’aborto terapeutico effettuato in seguito alla scoperta che il feto è affetto da una grave malattia ereditaria, o la decisione di non impiantare in utero (nel corso di una fecondazione in vitro) embrioni portatori di tale malattia devono essere considerati eccessi miranti a migliorare la razza umana eliminando alcuni individui? Se un giorno le terapie geniche si applicassero alle cellule trasmesse alla discendenza, si rischierebbe di deteriorare il patrimonio genetico umano? La possibilità di scoprire assai precocemente una predisposizione a questa o quella patologia rischia di venire sfruttata a danno dell’individuo? Sono tutti interrogativi ai quali la legislazione dei vari Paesi non ha ancora dato una risposta definitiva.


La sfida del genoma umano

I progressi della genetica molecolare hanno permesso di redigere la mappa completa del genoma umano, ossia dei geni contenuti in ogni molecola di DNA della specie umana. Questo lavoro, intrapreso dall’équipe del francese Daniel Cohen e portato a termine alla fine del 1993, costituiva un presupposto indispensabile per isolare i geni.

Parallelamente, negli Stati Uniti è stato varato nel 1986 un vasto programma di ricerca, che mirava a determinare la totalità della sequenza di basi del genoma umano. Questo progetto, terminato nel 2001, ha mostrato che esso contiene circa 35.000 geni. Le ricerche fanno sperare che nei prossimi anni molte malattie genetiche potranno essere individuate e trattate precocemente.


I misteri del genoma

Poco dopo aver individuato la struttura della molecola di DNA, i ricercatori scoprirono con stupore che il genoma delle cellule dotate di nucleo contiene materiale 20 volte maggiore del necessario: i geni rappresentano infatti solo il 5% di tale molecola. L’esatto ruolo di questo DNA apparentemente inutile, chiamato DNA egoista, rimane in parte ignoto. Si sa soltanto che esso interviene nella costruzione e nel mantenimento della struttura del nucleo.

Alla fine degli anni settanta del secolo scorso i ricercatori hanno constatato che l’informazione utilizzata per la sintesi delle proteine è frammentata all’interno dei diversi geni, i quali sono costituiti da un’alternanza di sequenze codificanti e non codificanti; gli studiosi non sono però stati in grado di fornire una spiegazione di questo fenomeno.