Nikefobia, la paura di vincere: cause, chi è a rischio, soluzioni
La vittoria può diventare più spaventosa del fallimento. Scopri come sviluppare il tuo pieno potenziale liberandoti dall’ansia del successo
Manca un metro all’arrivo, la tesi per laurearti, un passaggio formale per ottenere quel posto a cui aneli da sempre. Ma ecco che improvvisamente, inaspettatamente, la tua mente va in tilt, il corpo si blocca, blackout totale. Si chiama nikefobia, la paura di vincere (dal greco antico Nike, che significa vittoria e fobia, paura).
«È capitato almeno una volta a tutti noi ma in certi soggetti diventa un vero e proprio ostacolo alla realizzazione», afferma Giorgio Nardone, psicologo e psicoterapeuta e co-fondatore del Centro di Terapia Strategica ad Arezzo.
A tutti piace arrivare sul podio. Come mai si verifica questo paradosso?
«In realtà è un meccanismo di difesa emotiva. La vittoria, il raggiungimento di un obiettivo a lungo agognato, la conquista di una meta sono grandi cambiamenti che possono creare una dissonanza cognitiva. In pratica, nella mente di chi sta vivendo un’esperienza simile agiscono due forze contrastanti: la prima gioisce del traguardo in arrivo, la seconda ne ha paura e frena. Questo fenomeno si produce in modo inconsapevole ma preponderante: può essere una risposta adattiva dell’organismo, perché il successo, provocando la rottura dell’equilibrio precedente, spaventa. Anche se il cambiamento futuro porta a una condizione migliore».
Ci sono soggetti maggiormente a rischio?
«La nikefobia ha una natura multifattoriale, per cui, anche se il risultato finale è il medesimo, la paura si manifesta in modi molto diversi a seconda delle personalità che incontra. Possiamo tracciare cinque profili in cui ci si può riconoscere».
Quali?
«Cominciamo dal primo, che potremmo catalogare come una personalità afflitta dal timore e dall’autoinganno che porta con sé. Arrivare sul podio, per esempio raggiungere un record in termini sportivi, porta con sé la responsabilità di dover mantenere quell’alto livello di prestazione. Lo stesso vale per un riconoscimento tanto desiderato in termini professionali o ancora, nelle relazioni, nel fidarsi del grande amore finalmente conquistato. In tutti questi casi il timore di non riuscire a gestire gli effetti di un successo scatena la fuga.
Del resto, la paura è la nostra emozione primaria in grado di inibire non solo la rabbia, il dolore e il piacere ma anche le nostre capacità cognitive. Un altra modalità è l’autoinganno: si svaluta il traguardo a cui si è vicini. “Alla fine non è così importante” si autoconvince chi è soggiogato dal terrore di farcela.
Il secondo profilo è invece caratterizzato da sentimenti di frustrazione e rinuncia, come chi pensa di non meritarsi quel successo perché non sarà mai all’altezza di quel ruolo».
È la sindrome dell’impostore?
«Esatto. Prendiamo il caso di chi sta per ricevere un’importante promozione professionale. A un passo dall’accettare il nuovo incarico il soggetto rinuncia perché teme il confronto con gli altri colleghi e i suoi superiori. “Tutti scopriranno che sono un bluff, che ho ottenuto questo posto grazie a un colpo di fortuna ma che in realtà non ho le capacità necessarie a questa posizione professionale” è il retropensiero che arriva.
Razionalmente gli è chiarissimo che dovrebbe accettare, ma la sua parte emotiva rema contro. È una distorsione cognitiva per cui si viene sopraffatti dalla frustrazione di sentirsi impreparati e si rinuncia all’incarico».
È un comportamento paradossale…
«Sì, questa è una costante per tutti i cinque profili. Nel terzo, che esprime delusione e abbandono di fronte all’obiettivo conquistato, è particolarmente evidente. Questo può succedere a livello sentimentale, per esempio, dopo che si è lottato per anni per ottenere l’amore di una persona. Dopo anni di fatiche, chi ha raggiunto il proprio scopo, si dice: “Beh, è tutto qui? Ne valeva davvero la pena? Ho sofferto così a lungo idealizzando questa persona e questo è il risultato?”. Il traguardo agognato non dà quella felicità a lungo sospirata e a volte può essere perfino frutto di un cambiamento improvviso. Si rifiuta la conquista, si lascia quella persona o, nel caso per esempio di un ruolo professionale, ci si dimette.
Il quarto profilo ha a che fare con la fatica e il crollo e spesso ne soffrono gli sportivi di alto livello. Riguarda chi, a un metro dal traguardo, viene sopraffatto da un tracollo psicofisico. Può avvenire in ambito sportivo, ma anche in ambito scolastico, professionale o artistico. È tipico di chi si esaurisce impiegando tutte le risorse a disposizione, ottenendo l’effetto opposto. L’aumento forsennato dei ritmi di studio, lavoro e allenamento e la pressione sociale a cui vanno incontro i soggetti a cui è richiesta una performance elevata, come per esempio gli atleti o i personaggi dello spettacolo, provocano una débâcle assicurata. In realtà è un bene, perché è una reazione di allarme del nostro organismo per salvaguardarsi.
Che però provoca dolore…
«Necessario al cambiamento e alla ripresa. Come nel quinto profilo, che si arrende davanti alla vittoria a causa di una sofferenza affettiva. Qui notiamo un atteggiamento di dolore e resa, determinato dal “troppo amore” verso un soggetto che appartiene al nostro universo affettivo: un partner, un familiare o un amico. È il caso di chi non si concede il meritato successo per non creare sofferenza o frustrazione verso chi ama.
È tipico per esempio delle donne in carriera che si ritirano o mettono in atto in modo inconsapevole un blocco delle performance, perché il partner non è al loro livello. Succede anche nella relazione tra genitori e figli o in un contesto amicale. In pratica, il soggetto frustrato boicotta inconsciamente la persona vicina alla vittoria, mentre quest’ultima sacrifica la sua ambizione per proteggere la relazione».
Come ci si affranca da questo disturbo?
«Con la psicoterapia breve strategica è possibile osservare queste dinamiche e sottoporle a un “addestramento” attraverso una sequenza di esperienze guidate ed esercizi da svolgere tra una seduta e l’altra. In questo modo possiamo creare una sorta di “condizionamento” positivo, in cui stimoliamo nuovi circuiti sinaptici nel cervello del paziente in grado di attivarsi spontaneamente. Si sviluppa così una “esperienza emozionale correttiva” che determina cambiamenti concreti nella vita del soggetto in terapia, permettendogli di uscire dalla “psicotrappola” della paura di vincere».
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