Psicologia, anche tu puoi vincere quanto Novak Djokovic

Non è un confronto impensabile, e nemmeno irraggiungibile. I suoi record nel tennis parlano di una forza mentale che non è innata, ma si è costruito giorno dopo giorno. E che tutti possiamo conquistare nella vita. Perché non guarda al punteggio, ma a tirare fuori il meglio di ciascuno di noi in ogni circostanza



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Prima dei numeri (36 anni), prima dei titoli (24 Slam vinti), prima delle definizioni (il tennista più vincente della storia), viene lui, Novak Djokovic, e la sua vicenda di incrollabile forza interiore. Fatta di grandi rimonte, colossali lotte, epiche vittorie.

Una delle ultime, agli Us Open, contro Daniil Medvedev (che due anni fa aveva sconfitto il serbo nello stesso stadio di New York) ha cancellato il passato ed è stata giocata sul filo del rasoio, con la “testa” che ha armato il braccio di improvvise discese a rete. Non proprio una specialità per il migliore “ribattitore” del mondo.

Cosa è successo? Nole, probabilmente, è campione di Inner Game, il metodo della crescita personale rilanciato recentemente da Timothy Gallwey, esperto di psicologia sportiva e autore de Il gioco interiore nel tennista (Bur Rizzoli, 15 €).

«Ogni atleta, ogni persona deve contemporaneamente giocare due partite, nel campo e nella vita. Una contro l’avversario, l’altra, più importante, a favore di se stesso», professa l’autore.
Per sfumare dubbi, insicurezze, cali di concentrazione, di focus. E vincere, ancora una volta. Starbene ne ha parlato con Stefania Ortensi, psicologa dello sport e del benessere, docente nel Master in psicologia dello sport al Centri studi e formazione in psicologia dello sport a Milano.


L’esistenza è una continua partita di tennis, da cosa dipende il risultato a nostro favore?

In una delle ultime interviste, Djokovic ha detto che, nel corso della sua carriera, si è ispirato al cestista americano Kobe Bryant (detto “Black Mamba” e morto nel 2020), icona del basket e famoso per la sua frase chiave: “la vera sfida è dare il meglio di se stessi”. Un’affermazione emblematica: significa che la forza mentale, intesa come capacità di reagire agli eventi e di essere costanti nel perseguimento dei propri obiettivi, si può forgiare.

È un’attività implementabile, al pari delle tecniche d’allenamento fisico. E che scardina l’idea che la vittoria sia appannaggio di alcune caratteristiche mentali innate (hai o non hai la stoffa), mentre invece la si può costruire. Si tratta di un nucleo operativo fondamentale, trasferibile a qualsiasi obiettivo, professionale, lavorativo, sociale, sentimentale. Però, in questa possibilità, teoricamente alla portata di tutti, è basilare darsi dei traguardi, benzina pura per la nostra motivazione perché ci rifornisce d’impegno, costanza, senso di sacrificio e ci porta a dare la migliore versione di noi stessi.


Quali sono le regole di un match da podio?

A priori la partita vincente in sé e per sé non esiste, ci sono troppe variabili incontrollabili (tipo la risposta dell’altro, l’ambiente circostante, le nostre condizioni psico-fisiche). In ogni situazione, a trionfare è solo ed esclusivamente l’atteggiamento con cui affrontiamo qualsiasi sfida. E l’approccio giusto per andare incontro a una gara, sportiva e non, è darsi obiettivi smart (specifici, misurabili, realistici, cadenzati con scadenze temporali) e sentire nostra la competizione (ossia, non devono essere gli altri a darci gli obiettivi), in modo da mettere in quella situazione tutti noi stessi nel presente (favorendo la concentrazione).

Se, infatti, abbiamo dei traguardi plausibili, alla nostra altezza e siamo dentro a quel compito, ecco che possediamo i presupposti per una prestazione eccellente. Può portare a vincere? Sì, ma non dobbiamo lavorare sul risultato. Noi possiamo solo agire sul nostro approccio e ciò influirà sull’esito finale.


Nella migliore versione di noi stessi, quindi, il risultato ha un’importanza relativa…

La vera partita, nel tennis come nella vita, non è contro qualcuno (o qualcosa) ma con noi stessi. Al fine di darne la migliore versione, che non è mai assoluta ma cambia a seconda della situazione che stiamo affrontando. Quindi, l’esito finale è relativo e, forse, ininfluente sulla valutazione finale. Magari vinciamo con un giocatore scarso o che sta sbagliando molto, però non è detto che abbiamo dato il massimo.

Al contrario, possiamo giocare il nostro incontro perfetto, eppure perdiamo (per innumerevoli motivi). Tuttavia la sconfitta non toglie niente alla nostra versione migliore. Perché metterci nelle condizioni ottimali, ci porta, comunque, a essere soddisfatti, orgogliosi della performance. Vada come vada, la nostra sfida personale l’abbiamo vinta. A dispetto del punteggio numerico, del guadagno economico nel lavoro come di titoli nello sport.


Perché, pur sapendo giocare bene, nei momenti cruciali non riusciamo a sfruttare le nostre potenzialità?

La paura di fallire, di deludere le aspettative, di non essere all’altezza, di perdere l’affetto o la stima degli altri, se sbagliamo, è l’emozione che quasi sempre ci impedisce di esprimerci al meglio. Tutti abbiamo paura, ma questo è un pensiero negativo: possiamo scegliere se seguirlo e farci paralizzare. Oppure, accantonarlo e stare su quello che sappiamo fare o che sono le nostre risorse.

La paura di sbagliare è un grande problema? Sì, ci blocca. Pur di non rischiare, preferiamo non fare niente. Eppure, così ci togliamo l’opportunità di agire bene perché rinunciamo a esporci. Questo vuole dire allontanarci dalla nostra comfort zone e crearci dei margini di incertezza. Ma è solo uscendo dalla sfera controllabile che possiamo avere i picchi di prestazione, e dare il miglior valore di noi stessi.


Tra le nostre paure c’è anche quella della vittoria?

Sicuramente, e lo abbiamo visto in tanti tennisti, come lo stesso Djokovich, che nel 2021 ha perso male l’Us Open, a un passo dal Grande Slam. Non è tanto la paura di vincere in se stessa (il cambiamento di vita che comporta) a influenzarci negativamente, è piuttosto l’idea che la finale (un torneo come un affare o un esame) sia la nostra prova del nove: se perdo, rischio di svelare al mondo i miei limiti, di essere un bluff, di scoprire che finora era stata solo fortuna. È l’ansia del momento decisivo che fa scattare l’autosabotaggio.


Quali effetti produce?

Iniziamo a crearci degli alibi (non sto bene, questa cosa non mi piace, non m’interessa) che giustificano l’eventuale flop. Nel quotidiano, succede spesso con i ragazzi che, per il terrore di fallire a scuola, non studiano. Si dicono, convincendosi: prenderò 4, questo è certo, ma almeno quel voto ce l’ho perché non ho aperto libro. Nella loro mente, è più rassicurante che impegnarsi e rischiare di avere lo stesso un’insufficienza. Preferiscono, insomma, disinvestire poiché rifiutano di vivere il momento decisivo in cui verificano quanto e se valgono.


L’energia psichica deriva da come affronti l’errore?

Ritornando sul campionissimo serbo e alla sua vittoria americana, lui è l’esempio vivente della perfetta reazione all’inciampo. Come dice Lower, uno psichiatra degli anni Trenta e ancora attuale in psicologia dello sport: “dopo l’errore, si riparte da zero, e la vita futura è un foglio bianco tutto da scrivere”. Per la mentalità anglosassone, infatti, lo sbaglio non è percepito, come da noi latini, come qualcosa da segnare con la penna rossa e di cui vergognarsi.

Al contrario, è la via più rapida per imparare. L’errore, insomma, è la bussola che ci dice su cosa andare a lavorare, su cosa ci dobbiamo migliorare. Insomma, impariamo molto più da una sconfitta che da una vittoria, ed è la “batosta” che fa crescere una persona. Basta viverla in una logica costruttiva, e non come la fine del mondo.


Gli orizzonti superano i due set?

L’esempio dei tennisti di alto livello è illuminante e propedeutico. Hanno una programmazione di obiettivi a breve, medio e lungo termine. Il loro percorso sportivo, negli anni, è suddiviso in piccoli passi sapendo che ogni game, ogni incontro, ogni slam è solo un tassello di una strada molto più lunga. Vedere il quadro nella sua completezza fa capire come la singola partita (o torneo) non cambia la vita dell’atleta, lui gioca per prospettive molto più ampie.

Quello che muove i grandi sportivi non è tanto vincere quello che ancora manca e, nemmeno, superare tutti i record quanto la cosiddetta eudaimonia: dal greco, è quel fuoco sacro che nasce dentro una persona e che la conduce ad avere come porto finale l’autorealizzazione. Di essere felice di quello che fa, anche apprezzando quel percorso lungo, difficile, pieno di sacrifici che c’è dietro le vittorie. Sentire Nole, al suo 24mo Slam per crederci: «Sono felice perché ancora faccio quello che mi è sempre piaciuto fare, giocare a tennis…».


Allora, il gioco del tennista è tutto interiore?

Eh sì, il gioco è dentro di noi. Perché a qualsiasi età è importante trovare qualcosa che dia un senso alle giornate e che ci faccia stare bene. È nei gesti di gratificazione, profonda e personale, che la vita ci fa toccare con mano la felicità.


La flessibilità fa la differenza

Viviamo in un mondo che è cambiato e continua a cambiare in modo velocissimo. «Flessibilità e adattamento sono due elementi indispensabili per avere successo nella vita contemporanea», afferma la psicologa. «Quindi, saper leggere il contesto in cui ci troviamo e adattare, di volta in volta, le nostre finalità ci fa vedere cosa possiamo fare nel “qui e ora”, per dare la migliore versione di noi stessi e realizzare la nostra vittoria personale. Mentre se siamo rigidi e ci aspettiamo sempre che le cose vadano come vogliamo o in un certo modo, non saremo mai ripagati e ci sentiremo perennemente delusi, oltre che inefficaci».


Quella perfetta intesa tra mente e corpo

Da anni si parla di embodied cognition: non esiste corpo senza mente e non esiste mente senza corpo.

«Sono indivisibili e indissolubili, ma devono andare in armonia», chiosa Stefania Ortensi. «Perciò, porgiamo l’orecchio al nostro fisico per darci forza mentale. Ascoltare il battito cardiaco, come qualsiasi altro segnale concreto, è fondamentale per rispondere a una certa situazione con un’organizzazione mentale adeguata e proficua. Il cuore batte forte, le mani ci sudano? Sì, siamo in agitazione, probabilmente in difficoltà, ma se lo riconosciamo, ne siamo consapevoli. E mandiamo al cervello l’input a stare attenti e a concentrarci, per tirare fuori le risorse di cui in quel momento abbiamo bisogno. E che ci permettono di dire: tranquilla, ce la faccio».


Mai e poi mai sfiduciati

Il magnate americano Henry Ford affermava: “se tu credi di farcela (o no) avrai sempre ragione”. Come dire: la dose di autostima presente in noi determina in modo preponderante la quantità di successo che avremo. In psicologia, aiuta molto fare un’analisi lucida e onesta delle proprie competenze.

Si riassume nel “profilo prestazionale” in cui ci si domanda: “Quali sono i miei punti di forza? Quali sono invece i miei limiti? Che cosa posso migliorare?”. È un esercizio di consapevolezza perché l’autostima non la dobbiamo inventare, ma costruire. Nel momento in cui sappiamo su quali parti di noi stessi possiamo contare, ci costruiamo delle abilità personali che compensano le carenze. Abbiamo, dunque, messo insieme un tesoretto di fiducia in noi stessi.


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