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Cibi “free from”. È ora di fare il punto sui cibi senza

Senza glutine, senza olio di palma, senza zuccheri, senza grassi, senza uova e così via. I prodotti speciali finiscono sempre di più nel carrello della spesa. Ma sono davvero più salutari di quelli tradizionali?

Foto: iStock



Non facciamoci ingannare dai dati sul consumo dei prodotti “free from”, quelli senza uno o più ingredienti, come lieviti, glutine, sale, lattosio, olio di palma, zuccheri aggiunti, coloranti, conservanti, grassi idrogenati e così via.

La quinta edizione dell’Osservatorio Immagino Nielsen GS1 Italy, una fotografia del carrello della spesa media degli italiani, dice che gli alimenti “senza” mostrano una frenata: dopo aver chiuso il 2017 con una crescita annua del +2,3%, nel 2018 le vendite si sono fermate a un +0,1%.

«Questi dati devono essere interpretati nella maniera corretta», precisa Marco Cuppini, research and communication director di GS1 Italy. «Il trend rallenta perché gli slogan più tradizionali e più diffusi, come “senza conservanti”, “senza coloranti” o “senza grassi idrogenati” vengono progressivamente abbandonati dalle aziende a favore di altri di maggiore appeal, come l’emergente “senza antibiotici” per carne o uova». Risultato: i “free from” piacciono ancora. E tanto. Stanno solo cambiando numeri e volto sugli scaffali.


Perché piacciono
«A parte i casi in cui è necessario consumarli per accertate ragioni di salute, il loro successo è dovuto alla diffidenza con cui, ormai da qualche anno, i consumatori si approcciano al cibo, valutato più per quello che non ha rispetto a ciò che contiene», commenta Giorgio Donegani, tecnologo alimentare, esperto di nutrizione ed educazione alimentare. «Molto spesso il “senza” viene considerato un sinonimo di qualità: l’assenza di un ingrediente, messa in bella evidenza sulle confezioni, rassicura e fa pensare a prodotti più sani, leggeri e naturali». Questo però finisce per deresponsabilizzare il consumatore: «Bollare alcuni ingredienti come cattivi fa ricadere su di essi la colpa di malattie e disturbi, facendo dimenticare che il benessere è frutto di uno stile di vita generale, fondato su un’alimentazione equilibrata, su un giusto livello di attività fisica e su relazioni appaganti».


A volte “senza” è peggio
La principale caratteristica degli alimenti “free from” è l’assenza di qualcosa, che talvolta può essere sostituito con altri ingredienti dal medesimo scopo (per esempio: conservare, emulsionare, edulcorare o addensare). «È il caso del glutine, che consente al pane di lievitare, alla pasta di resistere alla cottura, agli impasti di essere più soffici», elenca Donegani. «I cibi che ne sono privi vengono spesso addizionati con fibre alimentari, gomme vegetali, farine di semi o altri addensanti, ma sovente il risultato è un profilo nutrizionale più calorico, più ricco di grassi e meno proteico».

Una dieta priva di glutine, inoltre (in assenza di una precisa indicazione medica), sembra possa danneggiare il microbiota intestinale, diminuendo i batteri buoni a favore di quelli patogeni. «In generale, bandire improvvisamente dalla tavola una sostanza cui siamo abituati può creare scompensi nell’organismo e questo vale soprattutto per latte, uova e farina, pietre miliari della sana nutrizione», avverte l’esperto.

«Inoltre, al di là del singolo ingrediente, la maggior parte dei cibi “free from” richiede processi produttivi più elaborati e questo incide sulla salute, perché la maggiore lavorazione di un alimento può influenzare il senso di sazietà, il contenuto di microelementi e addirittura l’assorbimento di molte sostanze».

Anche i cibi etichettati come “senza zuccheri aggiunti” possono presentare criticità. Se leggiamo l’elenco ingredienti, è piuttosto frequente trovare al posto del comune zucchero l’indicazione di edulcoranti alternativi (come sorbitolo, mannitolo, maltitolo, lactitolo, xilitolo ed eritritolo), che diversi studi hanno correlato a un aumentato rischio di diabete di tipo 2 e disfunzioni metaboliche perché mandano in crisi la capacita dell’organismo di regolarsi correttamente e spingono a mangiare di più, soprattutto cibi grassi. «Anche il fruttosio va guardato con sospetto», osserva Donegani. «Spesso utilizzato per dolcificare yogurt e tanti prodotti confezionati, pensiamo sia sicuro perché naturalmente presente nella frutta: in realtà, anche se viene metabolizzato in modo diverso dal glucosio, non è più salutare dello zucchero normale e, in eccesso, rischia di scatenare a livello epatico meccanismi simili a quelli dell’alcol».


A volte “senza” è inutile
Ci sono casi, però, dove il “free from” può avere una ragionevolezza. «Per esempio, quando a essere assenti sono ausili tecnologici non indispensabili: coloranti, conservanti o esaltatori di sapidità, come il glutammato monosodico», interviene la dottoressa Elena Dogliotti, biologa nutrizionista e supervisore scientifico per Fondazione Umberto Veronesi.

«Per il resto non bisogna lasciarsi andare a facile entusiasmo. Pensiamo alla crescita dei prodotti privi di lieviti, accusati di provocare gonfiore, problemi intestinali e senso di pesantezza: in realtà, questi disturbi non sono sempre associati all’alimentazione, perché sulla loro insorgenza possono incidere stress, stati infiammatori, scarso riposo e numerosi altri fattori.

Eppure, negli ultimi anni, è partita un’estenuante caccia ad allergie e intolleranze, nel tentativo o forse nella speranza di motivare i propri malesseri, ma anche di giustificare sovrappeso e obesità». Il problema è che, eccetto per lattosio e glutine, non esistono test scientificamente validati per stabilire un’effettiva intolleranza alimentare: dunque, in assenza di specifiche indicazioni mediche, scegliere il “free from” potrebbe rivelarsi inutile. «E soprattutto è importante non restringere troppo le scelte a tavola per evitare carenze nutrizionali», raccomanda Dogliotti.


Serve un semaforo in etichetta
Presto, in aiuto, potrebbe arrivare l’etichetta “semaforo”, chiamata Nutri-Score, già utilizzata in Francia, Belgio e Spagna: «Questa fornisce un punteggio nutrizionale al prodotto grazie a una sorta di semaforo, composto da cinque spazi con lettere e colori: A verde, B verde chiaro, C giallo, D arancione, E rosso», spiega la dottoressa Dogliotti.

Un po’ come avviene per gli elettrodomestici, ordinati dalla classe A alla D a seconda del livello di efficienza, anche gli alimenti potrebbero avere un punteggio globale in etichetta, considerando la presenza di ingredienti e nutrienti da limitare, come gli zuccheri semplici e il sale, ma anche quelli positivi per la salute, come le fibre. «Se dovesse sbarcare anche in Italia, forse questa “pagella” potrebbe risultare più utile per il consumatore rispetto alla valutazione di un singolo ingrediente, ma tenendo sempre conto che sono le quantità a fare la differenza. Per quanto valido, un alimento giudicato buono, così come qualunque “free from”, non deve spingere a consumarne in libertà perché più leggero».


No agli antibiotici

Su molte confezioni di uova e carne, è comparsa la dicitura “senza antibiotici”. In questo caso, l’assenza nell’intera filiera di produzione è importante: il vero pericolo di questi farmaci, infatti, non sono tanto le quantità minime che possono persistere negli alimenti, quanto la possibilità che il loro utilizzo massiccio e improprio favorisca lo sviluppo di super batteri negli allevamenti; scenario allarmante e pericoloso.


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Articolo pubblicato nel n. 36 di Starbene in edicola dal 20 agosto 2019

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