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Otosclerosi e il rischio sordità: come combatterla

L’otosclerosi è una malattia che indebolisce l’udito, diffusa soprattutto tra le donne in età fertile. Le armi per combatterla: diagnosi precoce e chirurgia



Di solito tutto comincia con un suono strano, invadente. Un fischio, un ronzio o un soffio ritmico, simile a quello che si avverte quando si gonfia la ruota della bicicletta, che echeggia dentro un orecchio. L’altro, in genere, continua a svolgere il suo compito egregiamente, compensando ogni difetto, per quanto possibile. E così possono passare mesi, talvolta anni, prima che all’acufene si aggiunga la chiara percezione che l’udito sia ormai in picchiata. Ma specie se sei donna e in età fertile, all’otorinolaringoiatra dovrebbe venire subito il dubbio: potrebbe trattarsi di otosclerosi.

Di sicuro non una notizia da festeggiare, anche se questa malattia, che provoca una progressiva perdita dell’udito, può essere affrontata con successo, soprattutto se si interviene precocemente.


Otosclerosi, un rischio al femminile

«L’otosclerosi è una malattia che provoca un’alterazione della struttura ossea dell’orecchio medio», spiega Diego Zanetti, direttore della UO Audiologia della Fondazione IRCCS Cà Granda Ospedale Maggiore Policlinico Milano e docente all’Università degli Studi di Milano. «Per la precisione, si forma una calcificazione attorno alla staffa, uno dei tre ossicini della catena uditiva (gli altri si chiamano incudine e martello) che, con il tempo, non riesce più a vibrare normalmente e a trasmettere in modo efficace il suono».

Interessa tra lo 0,5 e l’1,2% della popolazione occidentale (la più colpita nel mondo), le donne con una frequenza doppia rispetto agli uomini. «Di solito si manifesta dai 25 anni: accelerato dai fattori ormonali, il processo osteodistrofico tende a peggiorare in gravidanza, durante l’allattamento e per l’uso della pillola anticoncezionale, e ad arrestarsi intorno al periodo della menopausa», chiarisce l’esperto.


Otosclerosi: sordità in 3 casi su 100

Nell’80% dei casi l’otosclerosi è bilaterale: si manifesta prima in un orecchio e poi, dopo un intervallo di tempo variabile, nell’altro. «Il sintomo iniziale è in genere l’acufene, seguito dalla sensazione di orecchio chiuso e una progressiva perdita dell’udito», prosegue l’esperto.

«Per fortuna, soltanto in tre persone su cento la crescita ossea anomala finisce per invadere l’orecchio interno, interessando la coclea, cioè quella struttura a chiocciola incaricata di tradurre i suoni in impulsi nervosi. In questi casi si arriva alla sordità totale, mentre in tutti gli altri la riduzione dell’udito supera raramente il 60% della capacità uditiva».


Otosclerosi, una questione di famigliarità

L’otosclerosi è un disturbo a base genetica: non esistono comportamenti sbagliati in grado di scatenarla, né atteggiamenti virtuosi che possono prevenirla. Tende a trasmettersi da genitore a figlio (più spesso, da madre a figlia), ma esistono anche i portatori sani. In media, circa la metà dei pazienti presenta casi evidenti in famiglia, mentre l’altra metà riguarda forme sporadiche, che compaiono per la prima volta senza precedenti noti. Per diagnosticarla, lo specialista si avvale di tre semplici procedure.

«La prima consiste nell’osservare l’orecchio mediante otomicroscopia o otoendoscopia» precisa il professor Zanetti. «In caso di otosclerosi il timpano ha un aspetto normale, perciò si può escludere che il calo dell’udito sia legato a malattie infiammatorie, otiti o perforazioni timpaniche. Si passa poi all’esame dell’udito e all’impedenzometria, test che valuta l’elasticità del timpano e la presenza o meno dei riflessi stapediali, Questi ultimi rappresentano un meccanismo di difesa naturale: quando si è esposti a un suono improvviso e intenso, il piccolo muscolo collegato alla staffa, chiamato stapedio, si contrae, proteggendo le strutture più delicate della coclea. L’assenza del riflesso, nella maggior parte dei casi, indica che la staffa è bloccata».


Apparecchio o intervento? Te lo dice la Tac

Non esistono cure farmacologiche per l’otosclerosi. «In passato sono stati provati alcuni farmaci come i bifosfonati o il fluoruro di sodio, ma si sono rivelati inefficaci», dice Zanetti.

Le soluzioni? Si può ricorrere agli apparecchi acustici, ma non solo: c’è anche la possibilità di sottoporsi a un intervento chirurgico, la stapedoplastica. «Prima di eseguirla si fa una Tac, per escludere malformazioni anatomiche che potrebbero impedire l’accesso alla zona da operare. In questo caso l’intervento è escluso, e lo stesso vale se il nervo facciale risulta spostato e rischia di subire danni, e quando l’otosclerosi è in stato troppo avanzato e interessa anche la coclea».

L’intervento però, punta a ripristinare la capacità uditiva e non a cancellare l’acufene che, nella maggior parte dei casi, si attenua ma non sparisce. Dura circa 40 minuti, in anestesia locale con sedazione, passando attraverso il condotto esterno, quindi senza incisioni. «Dopo aver sollevato la membrana del timpano, si rimuove la parte superiore della staffa (l’arco stapediale) lasciando intatta la base (la platina)» spiega Zanetti. «Su questa, con il laser o il micro-trapano, si esegue un minuscolo foro in cui viene inserita una protesi in teflon che viene agganciata all’incudine, in modo da ripristinare la trasmissione delle vibrazioni sonore nella catena degli ossicini».


Dopo l’operazione niente sport e occhio ai viaggi

Dopo l’intervento è prevista una notte di degenza, poi si può tornare a casa. È fondamentale, però, osservare una settimana di riposo durante la quale si può avvertire un po’ di nausea, lievi giramenti di testa e l’alterazione del gusto (che talvolta persiste per oltre un mese). Anche i piccoli gesti quotidiani vanno eseguiti con cautela: bisogna starnutire a bocca aperta e soffiare il naso con estrema delicatezza.

«Il foro praticato alla base della staffa durante l’operazione crea una comunicazione tra l’orecchio medio, pieno d’aria, e quello interno, che contiene un liquido, la perilinfa» interviene Zanetti. «Alla fine dell’intervento, il “buchino” viene sigillato, per evitare che questa fuoriesca. Se però accade, a causa di sforzi o pressioni improvvise, possono insorgere forti vertigini e l’esito della stapedoplastica può essere compromesso».

Non solo: «Per un mese bisogna stare attenti che non finisca acqua nell’orecchio, va sospesa l’attività fisica e non si possono prendere aerei né treni ad alta velocità, che comportano sbalzi pressori», avverte l’esperto.


Otosclerosi, la percentuale di successo dell'intervento è alta

L’esito dell’intervento dipende molto dall’esperienza del chirurgo e dal numero di casi trattati. «Nel mio percorso professionale, il 93% dei pazienti ha riportato un miglioramento dell’udito; nel 5-6% per cento dei casi la situazione è rimasta invariata mentre il restante 1-2% ha risentito di un peggioramento dell’ipoacusia», spiega Zanetti. «

Di rado è possibile che, nonostante l’intervento, l’otosclerosi continui a evolvere lentamente verso la coclea. Un’altra eventualità è che, a distanza di anni dalla stapedoplastica (almeno una decina, ndr), si verifichi un improvviso calo dell’udito, che si può cercare di correggere con un nuovo intervento: succede nel 5-6% dei casi, quando la protesi si stacca dall’incudine per via dell’usura».


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