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Fibrillazione atriale: le cause, i sintomi e come si tratta

È un disturbo del ritmo cardiaco piuttosto frequente, ma esistono diverse tipologie di fibrillazione atriale. I sintomi e le cure

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Immaginiamo le ali di una farfalla, che battono così velocemente da sembrare quasi ferme. È quello che accade alle cavità superiori del cuore durante un episodio di fibrillazione atriale, un disturbo del ritmo cardiaco piuttosto frequente. «Ne soffre l’1 per cento della popolazione generale con una prevalenza che appare relativamente bassa nei soggetti più giovani e aumenta progressivamente con l’avanzare dell’età. La percentuale sale, infatti, al 5 per cento fra gli over 65 e addirittura al 10 per cento tra le persone con più di 75 anni», descrive il dottor Giuseppe Musumeci, direttore di Cardiologia presso l’Azienda Ospedaliera Ordine Mauriziano di Torino.


Che cos’è la fibrillazione atriale

Il normale ritmo cardiaco viene definito sinusale, perché il nodo seno-atriale (una piccola “centralina elettrica” localizzata nell’atrio destro del cuore) agisce come un pacemaker naturale, capace di stimolare battiti regolari e ritmici. «Nella fibrillazione atriale, invece, accade qualcosa di anomalo: le due cavità superiori del cuore, chiamate atri, non battono a tempo e iniziano a contrarsi molto velocemente», spiega il dottor Musumeci.

«A quel punto, la frequenza cardiaca accelera e raggiunge oltre 100 pulsazioni al minuto, a volte anche 200-300, rispetto alle 60-100 considerate normali in condizioni di riposo». Per fortuna, il cuore è dotato di una struttura – il nodo atrioventricolare – che “filtra” la trasmissione degli impulsi elettrici dagli atri ai ventricoli: «Siccome sono i secondi, cioè le cavità inferiori del cuore, a dettare il ritmo, il blocco imposto dal nodo atrioventricolare impedisce alla frequenza cardiaca di raggiungere livelli esagerati. In altre parole, diventa alta, ma non altissima», racconta l’esperto. Non si tratta, però, solo di velocità: un normale ritmo sinusale è anche regolare, per cui il cuore batte in maniera cadenzata come un orologio a pendolo, mentre nella fibrillazione atriale la frequenza diventa disordinata.


Quali sono i sintomi della fibrillazione atriale

Il sintomo più caratteristico della fibrillazione atriale è rappresentato dalle palpitazioni: «Di norma, non avvertiamo il nostro battito cardiaco, eccetto in caso di emozioni intense o sforzi fisici che ne aumentano la frequenza e lo rendono quindi percettibile. Nel caso della fibrillazione atriale, invece, anche in condizioni di calma e riposo “sentiamo” il battito e abbiamo la sensazione che sia veloce e irregolare», racconta Musumeci. Non si tratta di una regola fissa, comunque, perché una quota di pazienti è del tutto asintomatica: «Inoltre, anche nelle persone che avvertono il battito, la percezione è solo iniziale, perché poi ci si abitua e in qualche modo quell’unico sintomo scompare».


Ne esistono diverse tipologie

Non esiste un’unica tipologia di fibrillazione atriale, perché la modalità di insorgenza e cessazione consente di distinguerne tre forme: parossistica, persistente e permanente. «La prima è quella che “viene e va” spontaneamente, nel senso che è occasionale, dura da pochi minuti a diversi giorni, ma si risolve da sola», tratteggia il dottor Musumeci. «Quella persistente, invece, si protrae per oltre una settimana e non si risolve in maniera spontanea, per cui necessita dell’intervento medico per essere interrotta. Infine c’è quella permanente, detta anche cronica o di lunga durata, che persiste ed è continuamente presente, nonostante i possibili trattamenti».


Quali sono le cause

La fibrillazione atriale può essere “primaria”, cioè senza una causa evidente, o “secondaria”, ovvero conseguenza di alcune malattie o condizioni che la favoriscono, come ipertiroidismo, anemia, anomalie cardiache congenite o danni alla struttura cardiaca in seguito a infarto o cardiopatia valvolare. «In entrambi i casi, a una diagnosi certa si arriva con alcuni esami strumentali, ovvero elettrocardiogramma ed ecocardiogramma», ricorda l’esperto.


Quali sono i pericoli

Di per sé, la fibrillazione atriale è una patologia benigna, che non crea problemi al cuore. Il problema sta nel fatto che, quando gli atri si muovono velocemente, il sangue può ristagnare al loro interno e c’è il rischio che si formino dei coaguli: se questi passano ai ventricoli, entrano nel torrente circolatorio e, qualora raggiungano il cervello, possono determinare un ictus. «Abbiamo la possibilità di valutare il livello di rischio attraverso il CHA2DS2-VASc, uno score raccomandato dalle linee guida internazionali per stabilire quali pazienti con fibrillazione atriale debbano essere trattati con terapia anticoagulante orale per ridurre il pericolo. In pratica, ai pazienti viene assegnato un punteggio da 0 a 9, in base a una serie di parametri e co-morbilità, come età superiore ai 65 anni, ipertensione, diabete, storia di malattia vascolare e così via: eccetto nel caso di score pari a 0, dall’1 in poi viene raccomandata la terapia anticoagulante», descrive Musumeci.


Come si tratta la fibrillazione atriale

La fibrillazione atriale viene trattata principalmente con la cardioversione, ovvero modificando le proprietà elettriche del cuore allo scopo di ripristinare il normale ritmo sinusale. «Questo si può ottenere sia con la somministrazione di farmaci antiaritmici, che rappresentano il trattamento di prima scelta, sia con una procedura terapeutica, detta cardioversione elettrica, che esegue una sorta di “reset” dell’impianto elettrico del cuore, a cui si ricorre quando i farmaci non funzionano.

La cardioversione può essere eseguita solo quando l’episodio ha un’insorgenza databile a meno di 24-36 ore, perché oltre quella soglia temporale c’è il rischio che negli atri si sia già formato un coagulo di sangue, che con la cardioversione entrerebbe in circolo con tutte le temibili conseguenze», racconta il dottor Musumeci. «Talvolta, si può ricorrere a una terapia per il controllo del ritmo, che rallenta il passaggio della corrente elettrica dagli atri ai ventricoli: in questo caso, si utilizzano dei farmaci beta bloccanti o calcio-antagonisti». In altri casi, invece, si impiega la cosiddetta ablazione, un piccolo intervento chirurgico che si effettua per via endovenosa (inserendo dei cateteri attraverso la vena femorale) e necessita di 1-2 giorni di ricovero ospedaliero: «Lo scopo è “bruciare” le zone degli atri che creano cortocircuito, annullando di conseguenza i percorsi elettrici anomali presenti nei tessuti cardiaci».


I nuovi anticoagulanti orali

Un capitolo a parte spetta alla terapia anticoagulante, raccomandata – come abbiamo detto prima – in caso di CHA2DS2-VASc pari o superiore a 1. «Se un tempo il warfarin era la terapia più prescritta, da qualche anno sono disponibili nuovi farmaci, più efficaci, sicuri e con indiscussi vantaggi per il paziente», conclude il dottor Musumeci. «Noti come NAO, acronimo di nuovi anticoagulanti orali, non costringono il paziente a variare la dose del farmaco, né a osservare diete speciali, né a sottoporsi a un monitoraggio periodico per individuare il corretto dosaggio del principio attivo. Non possono essere prescritti, però, ai pazienti portatori di una protesi valvolare meccanica, a chi presenta una gravissima insufficienza renale e a chi soffre di fibrillazione atriale associata a una malattia della valvola cardiaca, in particolare a una stenosi mitralica. Per loro è necessario ricorrere al “vecchio” warfarin». Se ben controllata e se non associata ad altre patologie cardiache, la fibrillazione atriale consente di condurre un’esistenza del tutto normale (attività fisica compresa) e non si associa a una riduzione della durata della vita.


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