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Malattia mentale: che cosa sono i progetti di inclusione per vivere nella normalità

Grazie a percorsi personalizzati, è possibile gestire i disturbi e vivere nella “normalità”. Come testimoniano la storia di Cristina e quelle di altri pazienti coinvolti in progetti di inclusione

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Cristina Marcato ha 54 anni, vive con il marito Marco, l’amore della sua vita, nel loro minuscolo appartamento in provincia di Padova.

Ci sono giornate migliori, altre più grigie, dove i fantasmi della mente aleggiano nei dintorni. Ma oggi il sorriso illumina il volto di questa donna. A farlo scattare è la normalità, la possibilità di fare il bucato o di passeggiare con la figlia e la nipotina. Perché non è sempre andata così, anzi.

Fino al 2011 Cristina ha collezionato una serie infinita di ricoveri. La diagnosi? Disturbo della personalità, allucinazioni, autolesionismo. E diversi tentativi di farla finita. Una malata psichiatrica grave, insomma. Anche il marito è affetto da problemi analoghi. Eppure queste due persone hanno trovato una loro serenità, sono riuscite a convivere e a gestire i loro problemi.

È Cristina stessa che spiega come tutto ciò è stato possibile nel documentario girato da Silvia Chiodin, Cristina - Il racconto di una malattia (cristinailracconto.com), che verrà presentato il 20 settembre alla Milano Movie Week. Per fortuna, di esperienze positive, simili alla loro, ce ne sono sempre più.


RICOSTRUIRE LA PROPRIA VITA

Per gli esperti quella di Cristina è una “recovery”, ovvero una ripresa, una guarigione nella malattia: in pratica, si prova a rifarsi una vita, tenendo monitorati i disturbi. Secondo la World association for psychosocial rehabilitation accade al 55% dei pazienti psichiatrici.

«Conoscevo Cristina da ragazza, poi il destino ci ha allontanate», dice Silvia Chiodin. «Ho voluto raccontare la sua esperienza perché è la metafora di un successo, suo e delle persone che l’hanno aiutata. Ce l’ha fatta grazie a un percorso di psicoterapia individualizzato, all’amore del marito, alla comprensione della figlia con cui ha recuperato un rapporto di normalità. Tutti le hanno dato fiducia, così lei l’ha ritrovata in se stessa e nel mondo e ha potuto dire addio a ospedali e ricoveri».


LE ESPERIENZE DI COHOUSING

«Su questi malati pesa ancora un forte stigma: si pensa che chi soffre di disturbi del genere non possa uscirne mai, ma non è così», continua la regista. «Certo, bisogna avvicinarsi a queste malattie in modo diverso, dimenticando pregiudizi e paure e favorendo l’inclusione».

È questa la filosofia che ha dato il via anche a molti progetti di cohousing, in cui ex pazienti vivono insieme, seguiti da Asl o cooperative. Sono presenti in varie zone d’Italia, dal Trentino alla Puglia. Nella capitale, per esempio, ci sono i “Gruppi appartamenti”: 30 alloggi, dove le persone convivono aiutate da psicologi e assistenti sociali della Asl Roma 2.

«Gli operatori stanno con gli abitanti qualche ora al giorno, li invitano e li incoraggiano all’autonomia, a fare le pulizie e la spesa e a cucinare», spiegano dalla Asl. «I più giovani, tra i 22 e i 40 anni, hanno archiviato le fasi acute della malattia e riescono a convivere con problemi quali schizofrenia o bipolarità, perché seguono un percorso specifico, tracciato dagli specialisti, che prevede colloqui e laboratori nei centri diurni di salute mentale. Alcuni si sono rimessi a studiare, molti hanno un lavoro, fondamentale per restituire autosufficienza e dignità».


UN MODELLO DI SUCCESSO ANCHE ALL’ESTERO

Proprio il lavoro rappresenta uno dei tasti dolenti.

Bernardo Carpiniello è presidente della Società italiana di psichiatria e traccia un bilancio a 40 anni dalla legge Basaglia, che chiuse i manicomi. «Il sistema funziona, tanto che viene preso come un modello all’estero. Il ricovero è realtà solo per i casi o le fasi più critiche, altrimenti si punta sui centri diurni, che offrono tanti progetti di inclusione. Peccato che il personale sia quasi il 30% meno del necessario (lo Stato ci destina solo il 3,5% della spesa sanitaria, mentre, per esempio, Germania e Gran Bretagna dispongono almeno del 10%). L’offerta del lavoro, poi, è legata all’impegno di cooperative e onlus che non riescono a fare miracoli in Regioni dove la disoccupazione è già alta per chiunque». Per fortuna, privati e associazioni restano un punto di riferimento, una miniera di umanità, professionalità e inventiva.

Un appuntamento di rilievo è il Mind mad in design di Torino, dove, tra spettacoli, eventi e workshop, designer, architetti, studenti e malati si riuniscono per progettare le residenze psichiatriche. Per tutti è un importante luogo di formazione e di scambio: si impara a stare insieme e le persone con disturbi mentali acquisiscono sicurezza e rinfrescano le loro competenze.

Per riprendersi in mano la propria vita, poi, non bisogna dimenticare lo sport. Lo sa bene lo psichiatra Stefano Rullo, “papà” della Dream world cup, il mondiale di calcio a 5 per pazienti psichiatrici, con 140 partecipanti da tutto il globo: la prima edizione si è tenuta in maggio e se l’è aggiudicata proprio l’Italia. L’attività fisica, sottolineano gli esperti, aiuta a tenersi in forma e a combattere l’ansia e gli effetti collaterali legati ai farmaci. Non solo: stimola la socialità, la disciplina e l’autostima. Perché indossare la maglia azzurra e portarsi a casa una coppa abbatte ogni tabù.


L’AFFIDO

Si chiama affido eterofamigliare ed è una delle strade percorse per favorire l’inclusione delle persone con disturbi mentali.

«Le prime esperienze risalgono alle fine degli anni Novanta e ora la modalità è ben rodata», spiega il presidente della Società italiana di psichiatria Bernardo Carpiniello. «In pratica, alcune famiglie, selezionate e formate (spesso si tratta di psicologi o assistenti sociali, ndr), accolgono per un periodo di tempo un malato per aiutarlo a ritrovare una normalità fatta di piccole cose in un clima protetto e sereno».


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Articolo pubblicato sul n. 40 di Starbene in edicola dall'18/9/2018

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