Alzheimer e il nuovo test ematico: passi avanti nella diagnosi
La recente approvazione da parte della FDA di un test ematico per l’Alzheimer segna un importante passo avanti nella diagnosi precoce della malattia. Tuttavia, il test non è ancora definitivo e presenta limiti di accuratezza. Parallelamente, altri studi promettenti e nuovi farmaci indicano una svolta
Un nuovo kit diagnostico, recentemente approvato dalla Food and Drug Administration (FDA) statunitense, rappresenta un ulteriore passo avanti nella lotta contro la malattia neurodegenerativa più temuta al mondo: l'Alzheimer.
Si tratta del Lumipulse G pTau217/ß-Amyloid 1-42 Plasma Ratio in-vitro Diagnostic Test, sviluppato dall’azienda americana Fujirebio Diagnostics, che “legge” nel sangue la presenza di due biomarcatori associati alla malattia di Alzheimer. Come ammoniscono gli esperti, però, è ancora presto per parlare di svolta definitiva: l’approvazione da parte dell’FDA porta con sé alcuni limiti sostanziali.
Al momento non è un test diagnostico
«Dal punto di vista biologico, l’Alzheimer inizia 20-25 anni prima dell’esordio clinico», spiega il professor Vincenzo Silani, neurologo presso il Centro Medico Visconti di Modrone di Milano e direttore del Dipartimento di Neuroscienze e del Laboratorio Sperimentale di Ricerca di Neuroscienze dell’IRCCS Istituto Auxologico Italiano. «In questa lunga fase preclinica, il cervello va incontro a modificazioni progressive, come l’accumulo delle placche di amiloide e la formazione dei grovigli neurofibrillari intraneuronali, che nel tempo compromettono in modo sempre più marcato le funzioni cognitive».
È proprio in questo intervallo, spesso asintomatico, che diventa fondamentale intervenire con strumenti diagnostici precoci, capaci di individuare i segni della malattia prima che i danni diventino irreversibili.
Oggi disponiamo di biomarcatori misurabili nel liquido cefalorachidiano, comunemente noto come liquor, che ci consentono di rilevare precocemente i segni biologici della malattia di Alzheimer, anche prima della comparsa dei sintomi. «Negli ultimi anni, la ricerca si è concentrata sul tentativo di trasferire questa capacità diagnostica dal liquor al sangue, con l’obiettivo di sviluppare test meno invasivi, più semplici da eseguire e accessibili a un numero più ampio di pazienti», evidenzia Silani.
Il test approvato dalla FDA, meno invasivo rispetto alla puntura lombare o alla PET, misura nel plasma il rapporto tra due proteine chiave implicate nella malattia di Alzheimer: la fosfo-tau217 e la beta-amiloide 1-42. Tuttavia, non può ancora essere considerato un test diagnostico definitivo. «Sulla base delle evidenze attuali», precisa Silani, «questo tipo di analisi può ancora generare falsi positivi e falsi negativi, per cui la sua accuratezza diagnostica non è paragonabile a quella ottenuta tramite l’analisi del liquor. Il test va quindi interpretato con cautela, sempre nel contesto di una valutazione clinica più ampia e integrata».
Cosa dice lo studio
La validazione del Lumipulse G pTau217/ß-Amyloid 1-42 Plasma Ratio è avvenuta attraverso uno studio multicentrico su 499 adulti con deficit cognitivi, come perdita di memoria o altri deficit cognitivi. In base ai risultati, il 91,7% dei pazienti che avevano ottenuto un risultato positivo al test del sangue (cioè che indicava la presenza di placche di amiloide) avevano effettivamente placche confermate da esami più affidabili e invasivi, come l’analisi del liquido cefalorachidiano o la PET.
Invece, il 97,3% dei pazienti con un risultato negativo non aveva effettivamente placche di amiloide, in base agli altri esami. In meno del 20% dei casi, il test ha dato un risultato indeterminato, cioè non è stato possibile concludere chiaramente se le placche fossero presenti o no, con l’indicazione a ulteriori indagini.
In Europa il test plasmatico non è approvato
Al momento, l’Agenzia europea per i medicinali (EMA) non ha concesso un’autorizzazione ufficiale all’utilizzo del test plasmatico come strumento diagnostico per l’Alzheimer. Questa esitazione riflette l’esistenza di una “zona grigia” legata alla sua attuale affidabilità clinica.
Tuttavia, le prospettive sono incoraggianti: «Con l’accumularsi di nuove evidenze scientifiche e il progressivo aumento delle casistiche a livello internazionale, è possibile che la sensibilità e la specificità del test migliorino ulteriormente», ipotizza Silani.
«In futuro le ulteriori verifiche potrebbero aprire la strada al riconoscimento del test come un vero e proprio strumento diagnostico, efficace e standardizzato anche in ambito europeo. Ma è ancora presto per dirlo».
Gli altri studi sul tema
Nel frattempo, altre due ricerche promettenti si affacciano all’orizzonte. Il primo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature, si è concentrato sull’individuazione di nuovi marcatori biologici in grado di anticipare i segni del deterioramento cognitivo causato dalla malattia. Utilizzando l’intelligenza artificiale, i ricercatori hanno analizzato le proteine sinaptiche – quelle coinvolte nella comunicazione tra i neuroni – scoprendo che il rapporto tra due di esse, YWHAG e NPTX2, può indicare con maggiore precisione la comparsa dell’Alzheimer.
In sostanza, quando il valore della proteina YWHAG aumenta rispetto a quello di NPTX2, si osserva una correlazione diretta con un peggioramento delle funzioni cognitive e una maggiore probabilità di sviluppare demenza. Questo rapporto tende ad aumentare naturalmente con l’età, ma i ricercatori hanno scoperto che può diventare un indicatore predittivo anche nelle fasi iniziali dell’Alzheimer, prima che compaiano sintomi evidenti.
Si tratta di un risultato importante, perché i biomarcatori attualmente considerati “gold standard” (come quelli rilevati tramite imaging cerebrale o analisi del liquido cerebrospinale) sono costosi, invasivi o difficilmente accessibili. Il nuovo marcatore, invece, potrebbe rendere più semplice ed efficace l’identificazione precoce dei soggetti a rischio, facilitando lo sviluppo e la valutazione di nuovi farmaci sperimentali.
Parallelamente, un secondo studio – realizzato dalla Scuola di Medicina dell’Università di Washington a St. Louis e dalla Lund University in Svezia – ha sviluppato un test sperimentale del sangue in grado non solo di diagnosticare l’Alzheimer, ma anche di misurarne la gravità con un’accuratezza stimata del 92%. Pubblicato su Nature Medicine, il test si basa sull’analisi dei livelli ematici di una particolare forma della proteina tau, chiamata MTBR-tau243.
Verso una medicina personalizzata
In definitiva, da qualche anno, l’approccio alla malattia di Alzheimer sta cambiando radicalmente. Un esempio significativo è l’approvazione da parte della Food and Drug Administration (FDA) del primo anticorpo anti-beta amiloide, il Lecanemab, indicato per i pazienti nelle fasi iniziali della malattia, purché presentino caratteristiche biologiche specifiche.
«Questo anticorpo è stato approvato anche dall’Agenzia europea per i medicinali e viene oggi somministrato in fase precoce a chi mostra solo i primi segnali della patologia, spesso poco rilevabili nel contesto sociale del paziente», spiega il neurologo. «Questa è la direzione da seguire: intervenire precocemente, perché purtroppo le terapie non risultano più efficaci quando la malattia è conclamata. Sperare in un farmaco risolutivo per gli stadi avanzati dell’Alzheimer è al momento un’ipotesi irrealistica. Lo stesso vale per tutte le principali malattie neurodegenerative, come il Parkinson, la demenza frontotemporale o la sclerosi laterale amiotrofica: una volta che i neuroni muoiono, non possono più essere recuperati».
Oltre ai farmaci, è fondamentale l’adozione precoce di uno stile di vita sano, che può fare una grande differenza. Rapporti scientifici hanno identificato 15 fattori di rischio modificabili per la demenza, tra cui isolamento sociale, sordità, diabete, sedentarietà, ipertensione, obesità ed elevati livelli di colesterolo. Seguire comportamenti corretti sin dai 50 anni può ridurre il rischio di sviluppare demenza fino al 50%. Sul tema, le evidenze sono sempre più solide: attività come la lettura, la socializzazione, l’esercizio fisico regolare e la stimolazione mentale costante possono contribuire in modo significativo a rallentare o prevenire la degenerazione cognitiva.
Approccio all'Alzheimer, verso una svolta epocale
Nel frattempo, i recenti progressi della ricerca segnano una svolta epocale. Dopo decenni di attesa, stiamo finalmente assistendo a un cambiamento concreto nell’approccio alla malattia di Alzheimer.
«Oggi viviamo più a lungo ed è una grande conquista», osserva il professor Silani, «ma questo comporta anche che l’invecchiamento cerebrale diventerà una vera emergenza sanitaria. In Italia un terzo della popolazione ha più di 65 anni. E mentre cuore e articolazioni beneficiano da tempo di una prevenzione mirata, il cervello viene spesso trascurato. Il problema è che la degenerazione cerebrale non dà sintomi evidenti all’inizio, ma si manifesta solo quando i danni sono già importanti e, in molti casi, irreversibili».
È quindi necessario un cambio di mentalità: non si dovrebbe andare dal neurologo solo quando compaiono i sintomi. A partire dai 50-60 anni, una visita di controllo neurologica dovrebbe essere considerata parte integrante della prevenzione, al pari di un check-up cardiologico o di una visita odontoiatrica. «L’Alzheimer si affronta anche con l’informazione, la consapevolezza e l’impegno a proteggere la salute del cervello lungo tutto l’arco della vita», conclude l’esperto. «Solo così sarà possibile trasformare i progressi della scienza in benefici concreti per milioni di persone».
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