Perdita di memoria: come capire se è demenza o solo stress

Alzheimer: lo citiamo (temendolo) quando dimentichiamo qualcosa o facciamo fatica con nomi o numeri. Una grande esperta ci spiega quando preoccuparsi e quando basta solo un po’ di ginnastica mentale



55166

Dove ho messo l’auto. Chi sarà mai questo che mi saluta così cordialmente. Il mio numero? Aspetti un attimo... Un buco di memoria succede a tutti. E ognuno di noi ha delle “preferenze”: c’è chi dimentica i nomi, chi i numeri, chi la posizione delle cose. Il problema è che finché siamo giovani, se ci succede, lo notiamo e non ci pensiamo più. Ma con l’età che avanza la cosa può diventare sospetta, persino inquietante, e allora la battuta poco felice di quello che sottolinea la dimenticanza con “è l’Alzheimer” non suscita più risate.

E qui ci dividiamo in due categorie di pensiero: i resilienti e gli stressati. I resilienti di solito reagiscono pensando “sto invecchiando, non ricordare è normale”. Gli stressati invece iniziano a temere il peggio e che il famoso “amico” della battuta abbia ragione. Già, ma chi ha ragione? E che fare? Lo abbiamo chiesto a una delle massime autorità nel campo, la professoressa Federica Alemanno, Dirigente Primariale, responsabile del servizio di Neuropsicologia e Coordinatrice degli Psicologi, Neuropsicologi e Logopedisti del Dipartimento di Riabilitazione e Recupero Funzionale presso l’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano, docente presso le Scuole di Specializzazione in Neurochirurgia ed in Neuropsicologia dell’Università Vita- Salute San Raffaele a Milano.


Invecchiando è fisiologico perdere la memoria?

Non esiste una “sola memoria”: le sue componenti sono molteplici e hanno anche sedi diverse e specifiche nel nostro cervello. A seconda delle aree che possono essere colpite da un invecchiamento fisiologico o patologico precoce, questi effetti si esprimono in modo differente. C’è chi ha difficoltà a ricordare i percorsi, chi le parole o quello che deve dire per reggere una conversazione. Quindi ci sono diversi tipi di sintomi con diverse localizzazioni cerebrali. La capacità di memorizzare invecchia fisiologicamente o per una malattia (non per forza demenza: può essere effetto di un trauma o di un problema vascolare pregresso), ma occorre tenere conto anche della componente ansia. Quindi il percorso di recupero va personalizzato.


L’ansia? È così importante nella diagnosi?

È fondamentale. L’ansia è la nostra cartina di tornasole per capire se siamo di fronte a una perdita di memoria per una malattia degenerativa o, invece, se nasce da uno stress che è diventato patologico.


Cosa ci stressa al punto da non farci ricordare bene?

Gli ultimi studi ci dicono che l’eccesso di multitasking, cioè fare in maniera assidua molte cose contemporaneamente, determina una diminuzione dei collegamenti tra neuroni in una particolare regione del cervello, portando a una riduzione della capacità di attenzione, a un maggior rischio di insorgenza di depressione e ansia, e a peggiori prestazioni scolastiche e lavorative. Il multitasking può portare anche al burnout, cioè allo stato di esaurimento emotivo, fisico e mentale causato appunto dallo stress cronico, e caratterizzato da una sensazione di stanchezza persistente, sentimenti di inefficacia e ridotta realizzazione personale. Sul lavoro ci fa bene tutto ciò che migliora la prestazione, ma se quest’ultima peggiora, l’effetto è boomerang.


Cosa fare di fronte al dubbio di avere un problema medico?

Al più presto una valutazione neuropsicologica, che si avvale di test specifici che vanno a indagare la memoria, l'attenzione, il linguaggio, le capacità viso-costruttive, che si riferiscono alla possibilità di elaborare informazioni visive per creare e organizzare spazi, immagini e rappresentazioni mentali. Tutto ciò tenendo conto dell'età della persona, della sua scolarità e del sesso. Alla fine della valutazione, sapremo se siamo in un quadro di normalità oppure no, e quindi se il problema di memoria è degno di nota o fisiologico, o magari contingente a una fase appunto stressante della vita della persona.


E se si è ai limiti della norma?

Dopo la valutazione neuropsicologica, che è il grande spartiacque fra chi ha una patologia e chi no, bisogna monitorare il paziente nel tempo e intanto aiutarlo con degli esercizi cognitivi. Ma anche chi soffre di “solo stress” e ha dei tentennamenti nel ricordare non va abbandonato a se stesso, perché qualsiasi cosa abbia una ricaduta funzionale sulla nostra vita vale la pena di essere indagata e corretta. Cambierà solo l'approccio terapeutico, in questo caso più teso ad agire sulla personalità e ad alleggerire i carichi tensivi che la persona si è accollata nel tempo.


Che cosa caratterizza una demenza da un problema curabile?

L’incapacità di fare le cose che prima si sapevano fare, quindi l’interferenza massiva nell’attività quotidiana, come la casalinga che non riesce più a cucinare. L’incapacità di apprendere nuove informazioni. E nelle fasi più avanzate, la mancanza di logica. I sintomi iniziali di una demenza sono però di tipo linguistico o spaziale: mi sfugge la parola, non mi ricordo dove sono le chiavi. L’indagine neuropsicologica va fatta quindi ai primi segnali, perché più è precoce la diagnosi più sarà efficace la riabilitazione e le cure farmacologiche tese a rallentare la degenerazione. Ci sono demenze che appaiono anche solo a 55 anni e che vengono prese come stress eccessivo, perché nella cultura generale la perdita di memoria patologica viene collocata oltre i 70 anni, ma se la persona nota delle difficoltà, anche se è giovane, va indagata in modo specialistico. Se sarà solo stress ci si concentra su quello, ma se si tratta di altro si passa anche a esami come la Risonanza magnetica e la Pet, oltre ai test.


Ma si perde la memoria più recente o quella storica?

La memoria più recente, perché il malato di demenza perde progressivamente la capacità di apprendere nuove cose, mentre per un periodo rimangono i vecchi ricordi.


Le armi farmacologiche cosa possono fare oggi?

In commercio, sono disponibili farmaci come la memantina e gli anticolinesterasici che non agiscono sulle cause (e quindi fanno regredire il processo di degenerazione) ma sul sintomo. Un po’ come il paracetamolo, che toglie febbre e dolore ma non può uccidere il virus. Migliora quindi il disturbo cognitivo, la memoria, l’attenzione, però la malattia intanto, più o meno velocemente (ci sono casi che si mantengono clinicamente pressoché stabili per anni) va avanti. E poi un ottima “medicina” da affiancare è la riabilitazione cognitiva.


In che cosa consiste la riabilitazione cognitiva?

Anche nelle demenze rimane una certa plasticità cerebrale. I neuroni ancora vivi possono creare nuove connessioni fra di loro, ed è attraverso queste connessioni che passano le informazioni. Mentre il farmaco sintomatico migliora il sintomo, la riabilitazione stimola e promuove quei meccanismi di neuroplasticità che il cervello possiede. Il cervello è come uno sportivo che si allena nel modo giusto e costante: più lo alleni più apprende e riesce a potenziarsi. Certo, c’è chi risponde meglio: chi ha studiato molto o sempre, per esempio, ha un organo cerebrale più protetto, ha più connessioni neurali dovute proprio alla ginnastica-apprendimento di una vita, fatta di tante nuove conoscenze ed esperienze. Io vedo dei cervelli di persone diverse con Risonanze magnetiche che dimostrano di avere lo stesso grado di compromissione e di malattia ma poi ai test, chi avrà nella sua vita fatto più “palestra di conoscenze”, andrà meglio ai test e avrà una sintomatologia migliore. A parità di danno il recupero sarà migliore e più veloce, perché i neuroni sono più elastici e sono rimasti tali, allenandosi. Noi nella riabilitazione usiamo la realtà virtuale, perché abbiamo visto che coinvolge dei circuiti cerebrali maggiori e più profondi, e queste tecniche possono essere fatte anche a distanza, con la telemedicina. Così, in attesa dei nuovi farmaci ora in sperimentazione ma curativi alle porte, il paziente guadagna molti anni con una qualità di vita accettabile per sé e i suoi cari.


Perdita di memoria, quale può essere la causa

Alzheimer. È il tipo di demenza più diffusa, con 600mila casi in Italia ogni anno.

Traumi cranici. Possono uccidere i neuroni e interferire sui processi di memoria.

Benzodiazepine. Aumentano i disturbi di memoria di pazienti agli esordi di una demenza non diagnosticata.

Insonnia. Dormire male per molto tempo intacca la capacità di fissare le nuove esperienze.

Stress. Inibisce i processi attentivi e impedisce i nuovi apprendimenti.

Invecchiamento. L’età porta a un cambiamento, fisiologico, che cambia molto da persona a persona.



Fai la tua domanda ai nostri esperti

Leggi anche

Perdita e vuoti di memoria: le cause e cosa fare

Memoria: quali metodi usare per non dimenticare più nulla

I cibi per la memoria e il cervello: 6 spezie amiche dei neuroni