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Paolo Pizzo, dal tumore alle medaglie: «Lo sport insegna a lottare»

A soli 13 anni anni è stato colpito da un ganglioglioma, un tumore cerebrale. Sfoderando tutte le sue forze, è guarito ed è diventato un campione di scherma

Photo by Vincenzo Izzo/LightRocket via Getty Images



Porta con disinvoltura un curriculum pazzesco, coronato da tre grandi momenti di gloria: due medaglie d’oro ai campionati mondiali di scherma, e un argento olimpico nella spada a squadre. Per questo la vita di Paolo Pizzo è diventata prima un libro autobiografico, giunto alla seconda edizione, e poi uno sceneggiato televisivo che andrà in onda questa primavera su Rai 1. Titolo del libro e della fiction? La stoccata vincente. Quella che gli ha permesso di salire sul gradino più alto del podio, ma anche quella che ha tirato contro un destino beffardo, quando in palio non c’erano le medaglie ma la vita stessa.

Paolo Pizzo, infatti, si è ammalato di tumore al cervello a 13 anni e lo ha vinto grazie alla sua straordinaria forza d’animo e alla dedizione assoluta allo sport. Ecco, in sommi capi, la sua lezione di vita.


So che vieni da una famiglia di sportivi, che ti ha dato tanto fin da piccolo...

Sì, l’amore per lo sport viene trasmesso nella mia famiglia di generazione in generazione, come un testimone, un’eredità preziosa. Mio nonno era giocatore di pallavolo e pallanuoto, ginnasta e schermidore. Mia nonna, che ci guarda dal cielo, il mese scorso ha ricevuto il riconoscimento postumo Hall of fame della pallavolo italiana: allenatrice, allenava a schiacciate e bagher le mie zie, sorelle di mio padre. Negli anni del dopoguerra, quando si pensava solo alla ricostruzione dell’Italia, i miei nonni erano già una leggenda dello sport etneo, e non solo.

Mio padre Piero, a sua volta schermidore, è stato il mio primo allenatore e mi ha insegnato a non mollare mai, anche nei momenti più difficili segnati dalla malattia. Anche la mia famiglia attuale ha lo sport nel Dna: mia moglie è una campionessa di pentathlon moderno e le mie due bambine, di 2 anni mezzo e 4, praticano già judo con costanza e determinazione. Per me lo sport non è una pratica ludica, un momento di ricreazione come intendono molti genitori. Per me è disciplina, impegno, duro lavoro che ti ripaga con soddisfazioni enormi. Mi auguro che le mie figlie trovino la loro disciplina e l’abbraccino per tutta la vita.

Raccontaci quando hai dovuto vedertela con un brutto male...

Nell’autunno del ’96 ho cominciato ad avere dei momenti di assenza di lucidità: la mente si annebbiava e mi sentivo mancare. Allora praticavo assiduamente tre sport, calcio, pallavolo e scherma, e non volevo interrompere gare e allenamenti. Così per un po’ non ho detto niente ai miei. Ma poi i capogiri sono diventati più frequenti e intensi, e sono comparse anche le crisi epilettiche. È stata mia sorella, che allora aveva 12 anni, a convincermi a parlare con i miei genitori per andare dal medico. La tac cerebrale rivelò la presenza di un ganglioglioma, un tumore maligno al cervello che mi aveva procurato un grosso edema intracranico, pronto a comprimere e a mandare in tilt i centri del controllo motorio.

L’ho preso appena in tempo e, fortunatamente, era in una posizione operabile. Così, all’ospedale di Catania, mi è stata rimossa chirurgicamente la massa tumorale e sono rimasto in ospedale un paio di mesi, con la testa bendata e tutti i postumi dell’intervento. Ma non mi sono perso d’animo. Mi hanno operato a fine aprile e a settembre ero già in pedana, per i miei allenamenti quotidiani. Ho mollato il calcio e la pallavolo, e mi sono buttato anima e corpo nella scherma, il mio primo amore.


Hai dovuto seguire dei cicli di chemioterapia?

Fortunatamente no. Ho seguito una terapia farmacologica innovativa per l’epoca, con più pillole che ho assunto tutti i giorni per tanto tempo, fino a essere dichiarato fuori pericolo sei anni dopo l’intervento, allo scoccare del mio ventesimo compleanno. La nuova cura era frutto dei progressi compiuti dalla ricerca sul cancro, a cui devo molto.

Essere testimonial dell’Airc è un orgoglio per me: presto il mio volto alle campagne che invitano a sostenere la ricerca, e a volte mi contattano delle persone afflitte del mio stesso male che vedono nella mia storia un barlume di speranza. Non mi stancherò mai di dire che bisogna finanziare la ricerca, contribuire ognuno con i propri mezzi, per quello che può. La ricerca sul cancro è tutto: significa salvare vite umane, grazie alla scoperta non solo di nuove terapie, ma anche di nuove tecniche diagnostiche e chirurgiche.


I farmaci che assumevi ti davano effetti collaterali?

Certamente. Mi procuravano forte nausea, bocca secca, stanchezza e senso di malessere generale. Come ho combattuto tutto questo? Tuffandomi a capofitto nella scherma. Come dicevo, in autunno ero già in pedana e l’anno successivo ho ricominciato le gare, frutto di un allenamento intenso. Tutti i giorni facevo esercizi di respirazione, per aumentare la resistenza alla fatica, preparazione atletica con i pesi e sedute di scherma vera e propria, per migliorare la difesa e l’attacco. Scaricavo nell’allenamento fisico intenso la mia rabbia di adolescente che si sentiva tradito dalla vita.

Lo sport è stata la mia vera medicina, quella che mi ha permesso di non far vincere il tumore ma di togliergli ogni giorno dello spazio vitale, stoccata dopo stoccata. Se ti lasci andare, sei perso. Se rispondi con il training fisico, non solo hai una formidabile valvola di sfogo ma tutte le tue energie psicofisiche partecipano al processo di guarigione. Le due medaglie d’oro ai mondiali, nella specialità spada, hanno sancito trionfalmente la mia vittoria contro la malattia. Per questa ragione, non sono d’accordo con Fedez che ha definito il tumore una scure che si abbatte sulla tua vita e ti destabilizza. Per me insegna a lottare con tutte le proprie forze: se si supera la prova, va vissuto come un mezzo di crescita individuale.


A proposito di coach. So che alleni diversi atleti...

Sì, a 39 anni sono ancora uno schermidore ma mi sono diplomato come mental coach, forte anche della mia esperienza sul campo. Alleno diversi ragazzi nelle varie discipline, curo sia la loro preparazione fisica (che oggi conta più di quella tecnica) sia quella psicologica. Dietro l’impresa dell’azzurra Elena Micheli, oro ai mondiali di pentathlon moderno che si sono svolti lo scorso agosto ad Alessandria d’Egitto, c’è anche il mio zampino: sono il suo mental coach da 4 anni.

Inoltre sono diventato membro della Giunta Nazionale del Coni, che detta le linea guida delle discipline sportive e nella quale ho un ruolo operativo. Partecipare attivamente alla macchina olimpica del Coni è un sogno che coltivavo fin da bambino e che ho potuto realizzare. Per me, mia moglie e, mi auguro, le mie bambine lo sport è tutto: è stato la mia medicina, la mia vita.


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