Intervista a Edoardo Giordan: «La scherma mi ha salvato la vita»

A soli 20 anni, gli è stata amputata la gamba destra ed è uscito dal tunnel della depressione imparando a tirar di sciabola. Il campione paralimpico ci regala un ritratto di sé



Nutrire i sogni e le speranze, anche quando la vita ti pugnala profondamente alle spalle. E riuscire a diventare un campione, nonostante quella gamba amputata per sbaglio che non ha scalfito la sua voglia di affermarsi nell’olimpo della scherma. Sì, we are the champions, Edoardo Giordan è un atleta fuoriclasse che ha duellato con la sorte e ha vinto. La stoccata vincente va oltre le Coppe del mondo paralimpiche, conquistate nella sciabola. È la stoccata inferta contro quel nemico invisibile chiamato depressione, che rischiava di prendere il sopravvento dopo aver perso l’arto inferiore destro a soli 20 anni.

Un trauma enorme che è riuscito a superare grazie al desiderio di continuare a fare sport, anche sulla sedia a rotelle. Nuovo volto del brand italiano di cosmesi e personal care Bioclin, Edoardo Giordan, classe 1993, ha accettato di raccontare la sua storia a Starbene.


293244Sei stato vittima di un caso di malasanità, un errore diagnostico pagato a caro prezzo...

Undici anni fa, a 20 anni, ho cominciato ad avere degli strani sintomi alla gamba e al piede destro che si “addormentavano” dopo aver giocato a calcio, diventando color marmo e procurandomi fitte, crampi e formicoliì. Dopo esami vari, mi diagnosticarono il Morbo di Burger, una malattia rara che comporta l’infiammazione prima, e l’ostruzione poi, delle arterie di piccolo e medio calibro del corpo. Per migliorare la vascolarizzazione mi consigliarono di praticare molta attività fisica, e così alternavo le partite di calcio al running. Tutto sbagliato.

In realtà avevo un’altra patologia, sempre rara, chiamata PAES (acronimo di “sindrome di intrappolamento dell’arteria poplitea”) per la quale il movimento è altamente sconsigliato perché non fa altro che aumentare la compressione della suddetta arteria da parte dei muscoli circostanti. Più correvo, più le fibre muscolari diventavano ipertrofiche, pronte a “strozzare” il flusso sanguigno. Per via di questo allenamento intenso, i problemi vascolari alla gamba destra peggiorarano rapidamente e alla fine andò in necrosi: decisero così di amputarla fino a sopra il ginocchio. Da un giorno all’altro mi ritrovai sulla carrozzina. E pensare che per curare la PAES sarebbe bastato un semplice intervento chirurgico...


Com’è cambiata la tua vita da allora?

È cambiata moltissimo. Io sono di Torrimpietra, una frazione di Fiumicino, e sono cresciuto sulla spiaggia di Fregene dove facevo il bagnino in uno stabilimento balneare. Giocavo a beach volley, nuotavo, ero in una squadra di calcio. Quattro mesi all’anno li passavo in costume o pantaloncini corti. Ritrovarmi con una protesi di metallo al posto della gamba destra è stato per me motivo di imbarazzo, quasi di vergogna. All’inizio non mi davo pace, continuavo a domandarmi “perché proprio a me?”. Prendevo antidepressivi, mi facevo seguire da una psicologa. Il dispiacere più grande è stato dover rinunciare al sogno di diventare pilota di aerei. Dopo la maturità volevo iscrivermi alla Scuola di volo, solcare i cieli e guardare la terra dall’alto, da un’altra prospettiva. Ho dovuto ridimensionare i miei orizzonti, venire a patti con la realtà.


Come sei diventato schermidore?

Quasi per caso. Dopo l’amputazione, ho seguito un programma di riabilitazione neuromotoria alla Fondazione Santa Lucia di Roma. Dovevo imparare a reggermi su una gamba sola, governando e appropriandomi della protesi come una mia estensione. Nella palestra dell’ospedale ho conosciuto Andrea Pellegrini, campione paralimpico di scherma e basket che mi ha invitato a provare la sciabola.

Io all’inizio ero perplesso, non avevo mai pensato a tirar di scherma ma intuivo che lo sport mi avrebbe salvato dal baratro in cui stavo sprofondando. E infatti è stato la mia unica, vera medicina. Andai a trovarlo in palestra e cominciai a duellare. Ma all’inizio non mi impegnavo più di tanto. Poi, dopo un anno e mezzo, durante un raduno a Tirrenia ho incontrato Bebe Vio, campionessa mondiale paralimpica di fioretto. È stata una rivelazione, da quel momento mi si è aperto un mondo. Mi sono chiesto: “Se ce l’ha fatta lei con quattro protesi, perché non posso farcela anch’io con una sola?”.


Che tipo di allenamento fisico segui?

Sono entrato nella polizia e tutti i giorni guido per quasi cento chilometri, tra andata e ritorno, per allenarmi nella palestra delle Fiamme Oro di Roma. Tutte le mattine faccio quattro ore di preparazione atletica che consiste in pesi, esercizi e macchine mirate a rafforzare la muscolatura del “core” e migliorare la cosiddetta forza esplosiva, molto importante nella sciabola. Poi prendo lezioni con il maestro e faccio gli assalti di scherma. Tre volte alla settimana mi fermo in palestra anche il pomeriggio, per perfezionare la tecnica. La scherma mi ha dato e continua a darmi tanto, tutto lo sport è una terapia formidabile.


Che messaggio vuoi dare a tutti i giovani disabili che si trovano in difficoltà?

Il primo consiglio sembrerà scontato ma è vero: non mollare mai. Non farsi travolgere dalla disabilità, rimboccarsi le maniche ed esplorare tutte le possibilità residue di praticare attività fisica. Personalmente la pedana mi ha guarito: non prendo più antidepressivi e farmaci da quando ho iniziato a praticare sport in maniera seria. Il secondo consiglio è quello di farsi aiutare. Non avere paura di chiedere aiuto, di mostrare le proprie fragilità fisiche e psicologiche. All’inizio io mi ero chiuso a riccio, pensavo che nessuno potesse darmi una mano.

Poi ho incontrato Andrea Pellegrini e mi sono affidato a lui, oltre a seguire l’esempio vincente di Bebe Vio. Ho ricevuto le giuste spinte solo quando mi sono aperto agli altri. E ora collezione medaglie d’oro, d’argento e di bronzo. A 30 anni, posso affermare di aver ritrovato una nuova dimensione del benessere, anche senza una parte importante di me. E invito tutti i giovani che si muovono in carrozzina o con una protesi a sfidarsi, giorno dopo giorno, percorrendo con fiducia la via dello sport.


L'alleanza vincente

Bioclin e il campione Edoardo Giordan. Che cosa hanno in comune? La condivisione degli stessi valori di forza e coraggio, condensati nell’hashtag “#Fight4YourDreams” e realizzati nel segno della sostenibilità sociale.

«Si pensa alla sostenibilità come qualcosa che riguarda il rispetto dell’ambiente, ma la nostra filosofia è di puntare anche su quella umana e sociale, perché ho sempre creduto nell’inclusione», dichiara Vittoria Ganassini, responsabile CSR di Istituto Ganassini, azienda di cui fa parte il brand Bioclin Laboratorio Dermonaturale.

«Il volto sorridente di Edoardo ci ha conquistato e abbiamo deciso di supportare l’associazione Art4Sport di cui fa parte, che si impegna ad aiutare i bambini e i ragazzi portatori di protesi di arto. Obiettivo? Far loro ritrovare la gioia di vivere grazie allo sport».

Esemplare modello di charity, l’Istituto Ganassini finanzia 26 tra enti ed associazioni, come appunto la Onlus Art4Sport. Perché ha scelto un campione di scherma? «Perché si basa su valori di lealtà tipici del nostro brand», risponde Vittoria Ganassini. «Inoltre, abbiamo anche una linea di deodoranti che aiuta gli sportivi a sentirsi sempre freschi e protetti».


(Foto Augusto Bizzi)


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