La campionessa paralimpica Aarjola Dedai: «Aiuto gli altri a non mollare»

Anni fa ha conquistato il titolo di campionessa mondiale paralimpica di salto in lungo. Oggi, con il suo esempio, ci sprona a lottare per realizzare anche i sogni più ambiziosi



286146

Non smettere mai di sognare. Neanche quando le difficoltà della vita ti soffiano contro come un vento forte, scuotendo il tuo corpo fino a farlo quasi cadere. Già, il corpo. Quando diventa un capolavoro imperfetto e ti mette di fronte ai tuoi limiti fisici, sei tentata di mollare tutto. Ma puoi trovare il modo di “attraversare” il tuo handicap, trasformarlo in un punto di forza per lanciare una sfida vincente e riscattarti grazie allo sport agonistico. È la storia di Arjola Dedaj, albanese di 41 anni, che ha vestito i colori azzurri nelle Paralimpiadi di Rio del 2016: è diventata campionessa mondiale paralimpica di salto in lungo nel 2017 e ha vinto numerose medaglie nei 100 e 200 metri.

Traguardi impensabili, se si pensa che Arjola è nata ipovedente, per colpa di una rara malattia ereditaria, causata da alterazioni genetiche. A 17 anni è letteralmente “sbarcata” in Italia attraversando il mare Adriatico a bordo di un gommone. Le abbiamo rivolto alcune domande per apprendere i segreti di una vita di amore e di successo, a dispetto della disabilità visiva.


Ci racconti della tua malattia e di quando sei arrivata in Italia?

Sono nata affetta da una rara forma di retinite pigmentosa, la degenerazione lenta, progressiva e bilaterale della retina. A 17 anni, quando dall’Albania mi sono imbarcata con mio padre e mio fratello per raggiungere mia madre che lavorava come colf ad Abbiategrasso, il mio mondo era già fatto di luci e ombre. Sdraiata sul gommone, avevo il terrore di cadere in acqua perché non sapevo nuotare. Con lo sguardo rivolto alle stelle, speravo di arrivare sana e salva sulle coste pugliesi e di iniziare una nuova vita, nonostante la cecità incombente. Quelle stelle luminose sopra il mare scuro e agitato sono state una delle ultime immagini impresse nella memoria.


Come sei passata all’atletica e al salto in lungo?

Quando sono arrivata in Italia mi sono dedicata alle danze sportive e al baseball, insieme ai miei compagni non vedenti. L’Istituto dei Ciechi di Milano mi ha aiutata molto: oltre a inserirmi nel mondo del lavoro attraverso corsi di informatica, mi ha aperto le porte dello sport e nel 2013 mi ha proposto di passare all’atletica. Non è stato facile perché devi avere al tuo fianco un atleta-guida che corre insieme a te, in completa sintonia, uniti da un cordino che teniamo in mano. Si corre “a specchio”, con lo stesso scatto e velocità.

Anzi, lui è un po’ più forte di te e deve mantenere una grande lucidità nel guidarti e indirizzarti, mentre ci alleniamo o gareggiamo. Stessa cosa nel salto in lungo: la guida si posiziona davanti a te, vicino alla linea di stacco, per condurti vocalmente fino al salto e all’atterraggio sulla pedana di sabbia. Ha un ruolo importante, preziosissimo per chi come me ha una disabilità visiva. Purtroppo in Italia mancano gli atleti-guida. E questo sì, è un grave handicap per chi vuole avvicinarsi alle discipline sportive, anche a livello amatoriale. Io e il mio compagno, l’atleta paralimpico Emanuele Di Marino, abbiamo fatto diversi appelli alle istituzioni per formare e reperire più facilmente atleti-guida. Ma sono puntualmente caduti nel vuoto.


Che cosa ti ha dato lo sport?

Fin da adolescente, l’attività fisica mi permetteva di mantenere un buon equilibrio psicofisico, a mano a mano che la cecità avanzava e si impadroniva dei miei occhi. Imparare a muoversi nello spazio senza gli ausili, amplifica gli altri sensi e ti consente di mantenere un certo grado di indipendenza e di autonomia, affrancandoti dal guscio protettivo della famiglia. La pratica sportiva aiuta molto, qualunque sia la tua disabilità. Se poi pratichi uno sport di squadra, apprendi delle strategie relazionali, condividi uno spirito di gruppo. Quasi una medicina per l’anima e il corpo.


Quando hai incontrato tuo marito? Ti alleni insieme a lui?

Ho conosciuto Emanuele nel 2013, durante il Campionato di atletica indoor che si è tenuto ad Ancona. Lui è nato con una malformazione ossea congenita: piede destro torto di terzo grado, cioè ruotato medialmente rispetto all’asse della caviglia. A sette mesi ha subìto un intervento chirurgico mirato a rimetterlo in linea, ma il prezzo da pagare è stato alto: ha l’articolazione della caviglia completamente bloccata. Ciononostante ha conquistato diverse medaglie d’argento e di bronzo nei 100, 200 e 400 metri e nel 2015 ha vinto l’oro nell’IPC Athletics Grand Prix di Grosseto. Appena ci siamo stretti la mano, tra me e lui è nato subito un feeling. Mi ha offerto un cioccolatino e, senza che io glielo chiedessi, ha cominciato a descrivermi le gare e gli scenari davanti a noi. Era come vedere un film attraverso i suoi occhi. Dal 2015 al 2021 è stato anche il mio atleta-guida: mi ha allenato in pista, come un bravissimo personal trainer.


Nel 2017 sei diventata mamma. Che cosa ha significato per te?

Leonardo ora ha 4 anni e mezzo e, insieme a Emanuele, regalano gioia alla mia vita. Alcuni pensano che diventare mamma, da non vedente, implichi un grande atto di coraggio. Ma io non sono d’accordo. Diventare genitori per noi è stato il traguardo di un percorso naturale, molto spontaneo e attraversato senza problemi. La gravidanza è stata un periodo magico: sentivo la nuova vita crescere dentro di me e, poiché ho avuto la fortuna di stare bene, mi sono allenata tutti i giorni fino a sette mesi e mezzo.

Chissà se il piccolo Leo, all’ombra del pancione, si sentiva un po’ sballottato! Certo, non è stato facile: già il cuore lavora per due, se poi corri e salti la fatica si fa sentire. Ma è andato tutto splendidamente. Non provo tristezza per non poter vedere mio figlio e il mio compagno. Li immagino, li guardo con il cuore. Leo gioca con il mio bastone per ciechi e quando vuole mostrarmi un oggetto me lo fa toccare con le mani. È il suo modo di farmi “vedere” le cose, la sua normale quotidianità. Gli ostacoli sono nello sguardo degli altri.


La coppia dei sogni

«Io ed Emanuele lo abbiamo ideato il progetto che porta questo nome durante le Paralimpiadi di Rio, nel 2016, in cui abbiamo gareggiato insieme», racconta Arjola. «Desideravamo qualcosa di scritto e di tangibile che rafforzasse la nostra armonia di coppia. Poi la mission si è allargata a tutte le persone portatrici di disabilità, che vorremmo aiutare a uscire dall’isolamento. E lo sport è sicuramente un buon inizio. Raccontiamo la nostra testimonianza sui social (trovi “La coppia dei sogni” su Facebook e Instagram) ma anche nelle aziende, nelle scuole e nei convegni universitari a cui siamo invitati, come l’ultimo all’Università Vanvitelli di Salerno. Non sono una wonder woman, sono solo me stessa, con la mia disabilità e le difficoltà quotidiane che cerco di superare con l’amore per la famiglia e per l’atletica leggera. Bisogna credere nei propri sogni, non mollare mai ma provare e riprovare finché non senti più il peso delle rinunce, ma riesci a essere felice. Sempre».


Fai la tua domanda ai nostri esperti

Leggi anche

Max Calderan e la sua traversata nel deserto: nessuno può fermare i sogni

Giorgio Minisini, campione di nuoto artistico contro i pregiudizi

Paolo Pizzo, dal tumore alle medaglie: «Lo sport insegna a lottare»