Pensiamo troppo a ciò che mangiamo: perché è pericoloso

Prima di portare un cibo in bocca contiamo le calorie, valutiamo se è sano o meno, ci imponiamo di evitarlo. E se non ci riusciamo, ci sentiamo sbagliati. Ma è questo fantasma pericoloso, dice il nostro esperto, che spalanca le porte a un’epidemia di disturbi alimentari



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Anoressia, bulimia e binge eating non guardano in faccia a nessuno, nemmeno ai vip. Sono tante le celebrità, da Lady Gaga a Jessica Alba fino a Jane Fonda e tanti altri, tra cui Elton John, che hanno confessato di essere caduti nel circolo vizioso dei disordini alimentari. E se l’atteggiamento disfunzionale è trasversale per età, genere, categoria sociale, tutto avviene perché questi problemi sono l’effetto dello scontro di forze oscure ma potenti. Qui la volontà di mangiare meno, di più o regolare, è travolta dai pensieri ossessivi che dominano le giornate di chi ne soffre e vincono sul proposito di agire in un modo o nell’altro.

Stefano Erzegovesi, medico psichiatra e nutrizionista, nel suo recente libro Un boccone alla volta (Mondadori) ha analizzato, centimetro per centimetro, il terreno su cui nascono i disturbi del comportamento alimentare per fare capire alle persone che ne sono vittime (e a chi gli sta accanto) una cosa essenziale: la soluzione parte dalla conoscenza e dalla consapevolezza dei meccanismi mentali ed emotivi da cui nascono, per poi arrivare alla sfida più temuta, cambiare il boccone nel piatto. Poiché solo con uno switch di testa si può fermare il danno.
Starbene ha chiesto all’esperto quanto un certo modo di pensare (e affrontare la vita) incida nell’esordio delle patologie alimentari.


Dottor Erzegovesi, che forze scendono in campo nell’alimentazione?

Sono due, e grandi. La prima è l’illusione del controllo, che ci fa sperare di mangiare di meno, o di più, sforzandoci in tal senso. Solo che il controllo, quando è eccessivo, funziona come una droga: più lo utilizziamo, più siamo spinti a usarlo, e meno siamo sicuri e fiduciosi nelle nostre capacità. La seconda è la biologia della sopravvivenza che, quando facciamo di tutto per reprimerci e mangiare di meno, manda al cervello segnali di massima allerta. Fino a che non ci siamo nutriti a sufficienza, il cibo sarà il nostro pensiero dominante e ogni parte di noi sarà determinata, fino in fondo, a cercare qualcosa da mangiare. Ecco, queste due forze, a seconda di chi vince la battaglia, si combinano diversamente nell’anoressia, nella bulimia e nel binge eating disorder (bed).


Cosa succede in questo conflitto?

Nell’anoressia prevale l’illusione del controllo. Per i primi mesi, chi la prova ha un vissuto positivo, la sensazione di stare benissimo, anzi di aver risolto un problema: sembra così, perché si mangia meno, il peso scende, tutti s’accorgono del dimagrimento, si riesce a essere più concentrati nelle nostre attività. Questo è il motivo perché spesso gli anoressici non vogliono curarsi: che motivo c’è di farlo se hanno già trovato il loro equilibrio? Poi, però, la grande carica mentale via via scema.

Nella bulimia, invece, la forza di controllo viene di giorno in giorno a scontrarsi con la spinta alla sopravvivenza connaturata dentro di noi, perciò si alternano giorni di dieta ad altri di abbuffate, in cui d’istinto si mangia quello che abbiamo a disposizione prima che sparisca. Mentre nel binge eating domina la perdita di controllo: chi ne soffre si dice “domani farò la dieta ma oggi mangio”. In questo disturbo, infatti, ci si sente ormai in balia di un pungolo che porta ad alimentarsi in modo compulsivo, in cui il cibo viene usato sostanzialmente per regolare le emozioni, come se fosse un anestetico: siamo stanchi? Mangiamo. Siamo tristi e stressati? Mangiamo. Siamo delusi? Mangiamo. E un po’ di sollievo lo dà, e lo cerchiamo oggi e lo cercheremo ancora più domani e dopodomani. Al momento funziona, dopodiché subentra il senso di colpa per aver esagerato, il disgusto verso se stessi, la sensazione insopportabile di vergogna.


Dice che questi problemi crescono su pensieri ossessivi e rigidi…

Sicuramente, e questo è l’effetto abnorme e deviato di un fil rouge che attraversa la nostra società. Abbiamo, infatti, perso di vista il migliore degli atteggiamenti a tavola, l’alimentazione intuitiva, per cui si mangia quando si ha fame, ci si ferma quando si è sazi, e si vive il cibo come nutrimento oltre che piacere. Oggi, invece, siamo nell’ottica dell’alimentazione disordinata. Pensiamo troppo a ciò che mangiamo, attribuiamo numeri, categorie ed etichette a ciò che mettiamo (o non) mettiamo in bocca. In ultima analisi, obbediamo a indicazioni, più o meno inflessibili, definite dall’esterno in maniera arbitraria.

C’è un eccesso di nutrizionismo dentro di noi, fatto di informazioni generiche, pregiudizi e autoconvinzioni, che ci porta spesso a masticare un pomodoro solo perché ha poche calorie, è pieno di antiossidanti e vitamina C e, magari, non ci piace troppo o non ci appaga in quel momento. Nello stesso tempo, però, un po’ tutti usiamo, almeno a sprazzi, il cibo come bisogno emotivo, e a quel punto ci dimentichiamo della nostra dieta ideale per buttarci sulla prima cosa che ci appaga. Ma il continuo scontro tra ciò che pensiamo di dover fare in materia di alimentazione e ciò che non riusciamo sempre a fare, ci snerva, ci scombussola. Questa guerra, ovviamente, nei disturbi alimentari, si struttura in modo radicale.


Il decorso qual è?

Nell’anoressia si cristallizza il meccanismo, “mai più questi alimenti nella mia vita”; nella bulimia, funziona a fase alterne “non posso assolutamente mangiare certe cose ma ogni tanto non ce la faccio”; nel binge eating, ci si dice: “so benissimo quello che devo mangiare per stare bene, tuttavia mi sono arreso alle mie emozioni distruttive”. La causa di fondo è che non si riesce più a pensare al cibo come qualcosa di flessibile in cui i bisogni sono personali e che oggi possono essere diversi da quelli di domani.


La dieta è la causa scatenante?

L’origine di queste malattie è multifattoriale, e una concausa, da sola, non provoca nulla. Però, uno schema alimentare rigido e spesso squilibrato nella composizione dei nutrienti, è un fattore di rischio per lo sviluppo. Ne può segnare l’esordio, se alla dieta s’aggiungono altri elementi predisponenti, come il sesso femminile (rappresenta il 90% dei casi di anoressia e bulimia), il temperamento perfezionista – più propenso a imporsi strategie di autocontrollo – e anche la familiarità. I disturbi alimentari non sono malattie ereditarie, ma gli studi mostrano la ricorrenza, all’interno della famiglia, di pazienti affetti da tali patologie.


Invece lo specchio quanto incide?

A livello psichico, le anomalie nascono quando si perde di vista la "consapevolezza enterocettiva”, quella voce che ci porta ad ascoltare le nostre sensazioni interne. Noi, infatti, siamo dotati di canali interni sensoriali, fondamentali per capire qual è il nostro vero stato di benessere. Ci basterebbe prestare attenzione a certi segnali (alzarsi bene dal letto, umore stabile, pensiero lucido, buone energie, ecc.) e usarli per sentirci a posto. Nel momento in cui, invece, percepiamo il nostro corpo attraverso strumenti esterni (lo specchio, le foto, i social) nel giro di qualche settimana saremo insoddisfatti. Perché inizieremo a pensare che il nostro corpo funziona bene solo se corrisponde a certi requisiti estetici. Nei disturbi alimentari, infatti, non ci si sente più un tutt’uno, ma ci si identifica solo con quella pancia “troppo grossa”, e questa deformazione innesca il meccanismo che porta fuori binario.


Se cambia il pensiero, cambia anche il peso?

Ci sono terapie che non si occupano di alimentazione ma agiscono positivamente su alcuni aspetti del pensiero: l’insoddisfazione corporea, la regolazione emotiva, la vita di relazione, la rigidità mentale. Queste tecniche, in assenza di diete, possono modificare il peso (in eccesso o in difetto) perché pensare meglio significa agire meglio. Anche a tavola.


Come?

È un percorso complesso, comunque si agisce sulla consapevolezza e sull’aspetto cognitivo, tipo aiutare il paziente a disperdere i pensieri automatici (ho la pancia, le cosce enormi) che, per loro natura, si autoalimentano e diventano ossessioni. Altre metodiche sono incentrate sulla vita di relazione e spingono il paziente a riconnettersi con il mondo esterno, in modo che il contatto con l’altro possa restituire uno sguardo su di lui migliore di quello che rimanda a se stesso.


Se ne può uscire da soli o bisogna farsi aiutare?

Il supporto specialistico è indispensabile e conta su un team di almeno tre professionisti. Il medico che controlla lo stato di salute fisica e prescrive esami di controllo e, all’occorrenza, specifiche cure psichiatriche. Il nutrizionista che traduce i bisogni nutrizionali di ciascuno in un menu sostenibile nel quotidiano, ma non troppo rigido in quanto i numeri sono amici delle ossessioni. Lo psicologo che dà il supporto necessario per incoraggiare a seguire al meglio il programma di cura e, nelle fasi successive, per consolidare, prevenire le ricadute e prendersi cura del proprio temperamento e della vita di relazione (come le difficoltà a comunicare in famiglia o la tendenza a evitare situazioni sociali o di gruppo).


  • ANORESSIA

La classica frase “renditi conto di quanto sei magra” non funziona mai, perché in un’anoressica l’ossessione d’ingrassare è tale da ignorare qualsiasi sofferenza da digiuno. Anzi, puntare il dito sulla magrezza paradossalmente rinforza i suoi propositi dimagranti, la rassicura nel continuare così, senza curarsi in alcun modo di quello che potrà avvenire in futuro. Quindi, aiutare una figlia a riconoscere il suo problema significa darle altri obiettivi, per esempio dicendole “facciamo qualcosa per questa sensazione cronica di freddo che ti sta consumando da dentro”; “mi dispiace vederti così irascibile e solitaria, e provo a immaginare quanto tu stia soffrendo”; “mi sembra che tu stia facendo troppa fatica a studiare, cerchiamo di fare qualcosa per un cervello che sembra essersi bloccato”.


  • BULIMIA

Dietro ai comportamenti bulimici c’è quasi sempre una sensazione di inadeguatezza corporea e di bisogno di vedersi magri – simile al pensiero anoressico – che va considerata e capita. Quindi, il percorso motivazionale deve partire da lontano, con frasi che non mortificano e facciano arrabbiare. Mentre è sbagliato ripetere “finiscila di abbuffarti” o “smettila di vomitare”, paga molto più dire “facciamo qualcosa per questi sbalzi d’umore”; “non c’è nulla di male a vomitare, esattamente come non c’è nulla di male a rimanere a letto al buio quando si ha l’emicrania”; “sarà bello tornare a essere felici di stare insieme, con calma, a tavola”.


  • BINGE EATING

In eterna lotta con la dieta, questi individui combattono tra gli estremi “è colpa mia che non sono capace di stare a stecchetto, è tutto inutile” e “le diete che ho fatto finora non funzionano, ma presto ne troverò una efficace”. Neanche in questo caso, comunque, serve agitare lo spauracchio delle conseguenze negative “se non dimagrisci, ti verrà un infarto”; occorre semmai cercare di spostare il bersaglio del problema: da “la dieta richiede forza di volontà” a “il cibo è il primo regolatore emotivo della vita di tutti e, finché se ne usa troppo, non potrà mai essere umanamente possibile, né per me né per nessun altro, seguire un regime alimentare». In questo modo, si distoglie la persona da una dimensione prestazionale in cui la volontà sembra essere la principale componente per un sicuro successo e la sua mancanza l a causa dell’ennesimo fallimento. Più che allenare la forza di volontà si deve “progettare”, come se fossimo degli architetti, l’ambiente in cui la persona vive.

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