Dipendenza da cibo o da alcol, come fermarsi in tempo

All’inizio è solo uno sfizio, ma lentamente può trasformarsi in vera e propria assuefazione. Ecco come bloccare sul nascere la dipendenza da cibo o da alcol



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La pizza, il cioccolato, le brioche, le patatine fritte…Sono un piacere immediato, una consolazione dopo una giornata stressante. Alcuni cibi hanno un appeal irresistibile. A cui si aggiunge, per molti, anche quello di un bel calice di vino o di una birretta fresca. Il problema è che a volte tendiamo a esagerare nella ricerca di queste gratificazioni. E la conseguenza non è solo l’aumento di peso: si può instaurare una vera e propria dipendenza da cibo o da alcol. La psicologa Patrizia Vaccaro, ci spiega come fermarsi prima che succeda.


Cosa determina una dipendenza?

Il desiderio, o craving come viene definito dagli addetti ai lavori. Una voglia improvvisa e incontrollabile di qualcosa, per esempio di un cibo o di una bevanda alcolica. È soprattutto un’assuefazione a un comportamento, al di là dell’oggetto desiderato. Chi ne soffre passa molto tempo a pensare a quando soddisferà quell’impulso e a mettere in atto una serie di strategie per continuare a reiterarlo, sacrificando molto tempo e risorse a questa tentazione. Fortunatamente non è un fenomeno immediato, una vera e propria dipendenza si costruisce nel tempo. All’inizio l’approccio è ludico: spesso si inizia a sgarrare in compagnia, per esempio con i drink all’happy hour. Poi arriva il craving vero e proprio: il mio cervello vuole ripetere quell’esperienza perché è gratificante. E allora si inizia a ricercarla in modo metodico, magari una volta alla settimana, finché non diventa quotidiana.


Quando diventa un problema serio?

Quando non ci si diverte più, e ci si trova per esempio a mangiare compulsivamente da soli davanti alla televisione. Si attiva una routine disfunzionale: non si esce più con gli amici, si trascurano le attività che ci danno piacere, si fa fatica a lavorare. Al contrario, se si riesce a tenere a bada l’impulso, significa che siamo in uno stadio precedente alla dipendenza vera e propria. Lo si capisce perché si riesce a differire lo stimolo. Per esempio, se mi abbuffo di cioccolato (e in genere lo faccio solo in determinate situazioni) posso verificare se riesco a resistere, spostando l’attenzione su altro. Faccio una telefonata, mi dedico a qualcosa che mi piace o rinvio la soddisfazione di quel desiderio di 30 minuti (magari puntando la sveglia del cellulare).


Si può uscirne da soli?

Se la dipendenza non si è ancora instaurata sì, posso riprendere il controllo aiutandomi con degli esercizi per controllare il craving. Per chi è scivolato nella patologia, è più difficile. Si tenta di smettere di continuo e si passa attraverso moltissimi fallimenti, che diventano motivo di frustrazione, paura e impotenza. Farsi aiutare allora diventa indispensabile perché non occorre solo smettere di usare una sostanza, ma sviluppare nuove strategie per desistere. Imparare cioè a costruire degli strumenti che sostituiscano quello che ha rappresentato per me: piacere, appagamento, gratificazione. Se per esempio mangio per affrontare la timidezza o la frustrazione, serve un supporto esterno che mi aiuti a diventare consapevole di questo meccanismo. Se lo faccio perché sono timida, non risolvo il problema mettendomi a dieta, ma analizzando cosa sta succedendo dentro di me, il bisogno che mi spinge. Diventando consapevoli delle proprie fragilità si impara a gestirle e si riesce a spezzare il meccanismo del craving.


Come si previene l’impulso (il craving)?

Immaginiamo un’onda che sento nel corpo e nella mente. Arriva il pensiero: “Devo assolutamente mangiare, non posso farne a meno, non vedo l’ora di farlo, è più forte di me”. Nella mente si accompagna a uno stato di ansia ed eccitazione, nel corpo a una sorta di irrequietezza diffusa. Si può paragonare a quando abbiamo un appuntamento con qualcuno che ci piace e viviamo nell’attesa del momento in cui otterremo questa gratificazione. Ora, quest’onda ha un suo percorso: cresce lentamente, ha un suo picco e poi ridiscende. E a quel punto sono fuori pericolo. Imparare piano piano a capire come funziona il craving ci permette di gestirlo senza dover per forza cedere a quella sostanza, che sia alcol, droga o cibo. Piano piano si apprende a riconoscere l’impulso, a ritardare la voglia di agirlo e poi, con gli strumenti giusti, si impara a riempire quell’ansia con qualcos’altro. È un addestramento emotivo. Via via che si diventa esperti nell’individuare le emozioni che stanno dietro all’impulso (la paura, la vergogna, il senso di inadeguatezza, la rabbia), si esce dal bisogno di una sostanza “esterna”.


Come ci si libera da una dipendenza?

Si inizia a mostrare al paziente cosa lo spinge verso il cibo. Perché ti sembra utile? A cosa ti serve? E quindi si illustrano i pro e i contro dell’utilizzo e di un possibile cambiamento. A quel punto si rinforzano i comportamenti positivi, ci si attrezza per le eventuali ricadute e si adottano strategie più funzionali.


La funzione dell’alcol

Nell’accezione comune, se vuoi rilassarti, ti bevi un bicchiere di vino. Si vede di continuo nei film: l’alcol ha un effetto confortante e distensivo, è sedativo. Funziona un po’ come un ansiolitico, abbassa il controllo e ha un effetto disinibente. È per questo che è così utilizzato nelle situazioni sociali: toglie l’ansia e la timidezza in un sol colpo. A chi non è capitato di arrivare a una festa sentendosi un pesce fuor d’acqua e, dopo un cocktail, sentirsi spigliato e a suo agio? Ovviamente però il consumo deve finire lì. Se invece utilizzo l’alcol per non pensare, per anestetizzarmi o per sentirmi meglio, significa che sto per scivolare in una dipendenza. Se poi devo assumerlo già al mattino prima di andare a lavorare, o per svolgere una vita apparentemente normale o ancora non posso fare a meno di bere una bottiglia o 3 cocktail a sera, allora sono già in una fase patologica e occorre subito correre ai ripari.


Perché la dipendenza è diversa dalla bulimia

Nella bulimia o nel binge eating disorder, il cibo viene usato per anestetizzarsi emotivamente o per gestire le emozioni. Ci si abbuffa con tutto quello che capita a tiro. Nella dipendenza alimentare invece esistono cibi prediletti: in genere zuccherini, sono alimenti che modulano la produzione di dopamina, un neurotrasmettitore che regola la sensazione di piacere e di ricompensa. La tipica dipendenza da dolci riguarda il cioccolato: dà una gratificazione immediata.


Un aiuto valido arriva dalla TMS

Si chiama Transcranial Magnetic Stimulation (stimolazione magnetica transcranica) ed è una tecnica di neurostimolazione che lavora sui circuiti della dipendenza, andando a regolare il rilascio della dopamina. In questo genere di disturbi infatti c’è un’alterazione dei circuiti dopaminergici. Funziona così: il paziente viene fatto sedere su una poltrona, gli viene posizionato per qualche minuto un coil (un attrezzo a forma di 8) sulla testa e, attraverso degli stimoli magnetici, si va a modulare la produzione di dopamina. È un procedimento indolore. La TMS agisce sul craving, sull’impulso: già a metà percorso si abbassa molto la pulsione verso la sostanza di cui non si riesce a fare a meno.


Chi è più a rischio

Se il legame emotivo che si forma tra un bambino e il caregiver (una figura di cura primaria, come la madre o il padre) non è adeguato, in età adulta l’individuo può sviluppare problemi relazionali e di regolazione emotiva. In pratica non si riescono a gestire le difficoltà, le situazioni impreviste e le emozioni complesse, come per esempio la paura, il senso di colpa, la vergogna e si adottano strategie disfunzionali per vivere. Da qui il ricorso ad aiuti “esterni” (cibo, alcol, droghe) il passo è breve. E ovviamente più il soggetto è emotivamente instabile, più utilizzerà sostanze forti, per esempio la cocaina invece del cioccolato.


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