Paola Nicolai: «La pet therapy mi ha ridato la parola dopo l’ictus»
Dopo l’ictus riusciva a emettere solo suoni disarticolati, ma grazie all’adozione di un cucciolo la manager ha trovato la forza di uscire dall’afasia
L'ictus l’ha lasciata senza parole, letteralmente. Le sembrava di essere dentro a un incubo, e di non riuscire più a comunicare con il mondo. Ammutolita, all’improvviso, catapultata in una bolla di silenzio rotto soltanto da suoni gutturali soffocati in gola. Eppure Paola Nicolai ce l’ha fatta. Con caparbietà e con l’aiuto di Ugo, il suo inseparabile levriero, ha superato la tempesta, è scesa dalla barca in altomare e, come Pollicino che seguiva le briciole, ha ritrovato il sentiero delle parole.
Titolare di un’agenzia di comunicazione a Milano specializzata nel settore immobiliare, Paola ha deciso di raccontare la sua esperienza di donna guarita dall’afasia in un libro intitolato Ho ascoltato la mia voce (Bookness, 17 €), a metà strada fra il diario autobiografico e le riflessioni sulla vita e sulle possibilità offerte dalla malattia di cambiare. Di più, di poter rinascere per diventare una donna nuova.
Curiosi di conoscere la sua storia, e di “prendere appunti” su come guarire dall’afasia, le abbiamo rivolto alcune domande. Certi che le sue risposte possano aiutare tante donne e familiari che si trovano alle prese con uno dei più comuni e invalidanti incidenti cardiovascolari, che in Italia colpisce ogni anno più di 90 mila persone.
Come si è accorta dell’ictus?
«Il 14 ottobre del 2021 ho sentito un dolore al petto, accompagnato da brividi e vomito. Era mattina, non ero ancora uscita per recarmi al lavoro, e la mia colf ha chiamato un’ambulanza. Diagnosi? Infarto. La stessa malattia che ha portato via mio padre a soli 50 anni. Io non fumavo, non soffrivo di colesterolo alto o di ipertensione, non ero in sovrappeso né sedentaria. Però mi sentivo addosso il peso dell’ereditarietà. In più ero stressata, perché lavoravo a ritmi “da infarto”. Sono stata alcuni giorni in terapia intensiva e mi hanno impiantato due stent coronarici.
Tornata in reparto iniziavo a intravvedere la fine del tunnel e stavo per essere dimessa quando, una mattina, mentre cercavo di alzarmi dal mio letto di ospedale sono caduta per terra. Tutta la mia parte destra del corpo era paralizzata, non rispondeva più ai comandi del cervello: metà bocca, il braccio, la mano, la gamba e il piede destro erano addormentati. In più la mia voce produceva suoni disarticolati, rochi, gracchianti o gutturali: nessuna parola di senso compiuto. Con la diagnosi di ictus sono stata trasportata in un altro ospedale dove, oltre a subire un nuovo intervento per un terzo stent, mi hanno prescritto la terapia farmacologica. Ma le parole non volevano saperne di tornare, si inceppavano sul nascere: ero diventata afasica».
Cosa ha provato quando si è resa conto di non riuscire a parlare?
«All’inizio non ero angosciata. Mi sembrava tutto così strano. Ero presente, riuscivo a capire ma era come se fossi semincosciente. Ho realizzato che cosa significhi diventare afasici quando, il giorno dopo, ho avuto una call con mio marito che non poteva venirmi a trovare in ospedale per via delle restrizioni Covid. L’ho visto sul monitor, volevo parlargli ma non riuscivo ad articolare una sola parola. "Scrivi", mi esortava lui. Ho preso carta e penna ma anche lì un disastro: mettere in fila delle lettere per comporre una parola era un’impresa impossibile. Sul foglio rimanevano solo qualche “M”, “T” o “Z” sparse, e pure scarabocchiate. Non riuscire a comunicare con mio marito mi ha fatto molto male. Per quanto tempo sarebbe stato così? Nessuno sapeva dirmelo».
Che cosa è successo dopo?
«Lentamente, grazie alle cure, ho ripreso a “sentire” e a muovere la gamba destra, poi è stata la volta del braccio e della mano. La bocca, invece, è rimasta a lungo “storta”, per via dell’emiparesi che mi faceva percepire un lato addormentato, come dopo l’anestesia dal dentista. Anche mangiare era un problema: mi cadeva il cibo dalla bocca. Quanto all’afasia, continuavo ad avere un disturbo del linguaggio importante e a emettere soltanto suoni. Già in ospedale ho iniziato le sedute di logopedia, un laborioso percorso di recupero delle parole, basato sull’imitazione di ciò che le mie orecchie sentivano, un continuo apprendimento per prove ed errori.
La prima volta che incontrai la logopedista dell’ospedale mi disse “provi a soffiare”, ma con un lato della bocca paralizzato non riuscivo. Dimessa, ho cominciato ad andare tutti i giorni alla Clinica San Giuseppe per le sedute di logopedia. Mi hanno dato un libro, come i vecchi abecedari, con le lettere a caratteri cubitali. La logopedista pronunciava un fonema e io dovevo cercare di riprodurlo, puntando la lingua contro il palato in un certo modo, stringendo o allargando le labbra, sforzandomi di emettere suoni sensati. Ero come un bambino che comincia a parlare: solo che da piccoli le parole sgorgano spontanee, io mi dovevo impegnare per conquistare vocali e consonanti».
E poi, un giorno, è arrivato Ugo...
«Sì, è un levriero dolcissimo, che ho preso quando aveva tre mesi. Ha colmato un vuoto affettivo perché il matrimonio non ha retto l’urto dell’ictus ed è andato in frantumi. Per me Ugo è più di un semplice amico a quattro zampe. Ha portato una gioia semplice e pura nella mia vita, insegnandomi il valore della gratitudine per il momento presente. È vero: ho avuto un infarto e dopo due settimane un ictus. Ma sono viva e assaporo la vita attimo dopo attimo. Ho imparato dal mio cane a rallentare il passo e a guardarmi intorno. Lui, con la sua curiosità, si ferma ad ogni angolo della strada, annusa questo e quel filo d’erba, regalandomi un nuovo modo di percepire il mondo. È stato ed è un maestro di vita che con la sua pazienza infinita, adattandosi ai miei limiti, mi ha svelato l’amore incondizionato. Tutti mi chiedono: ma come facevi a comunicare con lui, se non riuscivi a parlare? Come sei riuscita a educarlo, quando è arrivato cucciolo? Io rispondo sempre: i cani non parlano italiano, ma capiscono il linguaggio universale dei suoni. Captano la voce che viene modulata in modo perentorio, se gli devi impartire un ordine, o dolce se vuoi giocare o coccolarlo.
Ugo si è adattato subito al mio disagio, capiva tutte le sfumature di tonalità che ha la voce, anche se non emettevo frasi di senso compiuto. Io gli parlavo “in cinese”, con suoni pieni di acca e di kappa, e lui comprendeva e comprende a c e g h s tuttora perfettamente. Consiglio a tutte le persone di sperimentare dal vivo i benefici della pet therapy, che dà risultati sorprendenti in tutte le malattie, in termini di guarigione e riabilitazione. Nel post-ictus, poi, ti obbliga a entrare in sintonia con un altro essere vivente, a relazionarti con lui anche se le parole muoiono in gola. Insomma, ti aiuta a uscire dall’afasia, quasi per gioco. Inoltre è incredibile come i cani “fiutino” gli stati d’animo del padrone. Nei momenti di scoraggiamento, Ugo si è sempre accovacciato sul mio petto come per rincuorarmi. Oppure, arrivava con la pallina o il pupazzetto in bocca per spronarmi a reagire giocando con lui. Credo che l’incredibile olfatto consenta ai cani di sentire i nostri ormoni, che oscillano insieme al nostro umore. Hanno le “antenne”, per davvero!».
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