Medicina di genere, perché le donne sono discriminate

I farmaci, studiati sugli uomini, hanno efficacia e tossicità diverse sulle donne: occorre una ricerca più sex oriented che tuteli il sesso femminile. L’appello del grande studioso Silvio Garattini



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Nella popolazione italiana, le donne sono 1,6 milioni in più degli uomini. Ma benché siano in maggioranza, le “quote rosa” sono più penalizzate del “sesso forte” in molti campi: scuola, lavoro, carriera, retribuzione, persino sotto l’aspetto sanitario. Sì, anche nella possibilità di ricevere una diagnosi e una terapia tempestive e adeguate. Persino la ricerca è a senso unico. «Su 628 studi di nuovi farmaci che abbiamo analizzato, ben il 73% non riferiva dei diversi effetti su maschi e femmine. Eppure efficacia e tossicità di una molecola variano in base al sesso», esordisce il professor Silvio Garattini, farmacologo e ricercatore, presidente e fondatore dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri di Milano. «Per questo ho voluto scrivere un libro che sia uno spunto di riflessione per il governo italiano, che dovrebbe finanziare una ricerca meno generica e più “sex oriented”, per tutelare le donne. Anche le associazioni di pazienti femminili dovrebbero fare sentire la loro voce ed esigere cure adeguate al proprio genere. Affermare che la medicina è costruita intorno all’uomo è una verità scomoda. Ma è la verità». Il libro, redatto insieme alla dottoressa Rita Banzi, si intitola Una medicina che penalizza le donne (Edizioni San Paolo, 20 €) e ha per focus una sanità discriminatoria.


Perché le donne sono discriminate?

Per colpa di pregiudizi culturali duri a morire. In passato la discriminazione iniziava già all’università, in quanto si riteneva che ad accedere alla facoltà di medicina dovessero essere gli uomini. Oggi questa preclusione è caduta ma se si dice “chirurgo ortopedico” o “neurochirurgo” il pensiero va a un uomo in camice verde, non a una donna che ha la stessa esperienza e capacità. Anche il mondo accademico è discriminatorio: nel nostro paese 87 rettori universitari sono maschi e solo sei femmine.


Questa discriminazione avviene anche nella ricerca?

Gli studi clinici vengono condotti mediamente su esponenti del sesso maschile di 45 anni e con un peso medio di 70 chili. Le donne sono scarsamente o per nulla rappresentate. E questo gap inizia già a livello degli studi preclinici condotti in laboratorio. Non suona strano che le linee cellulari siano quasi tutte di provenienza maschile o non specificata? Idem per gli studi su cavie (9 topi su 10 sono maschi) e su quelli di fase tre inerenti gli esseri umani.


La risposta ai farmaci è diversa nei due sessi?

Cambia in base al sesso, ma anche in base alla genetica, alla dieta e al microbiota intestinale, al peso del paziente e alla sua composizione corporea, agli stati emotivi e allo stress, al suo stile di vita (fuma? beve alcolici? conduce una vita sedentaria?), all’esposizione agli inquinanti ambientali, al suo assetto ormonale e all’interazione con altri farmaci assunti in contemporanea, compreso i contraccettivi ormonali. Questi, infatti, interagiscono con antiepilettici, antidepressivi, antibiotici (rifampicina e rifabutina) e antiretrovirali.


Qualche esempio?

Un farmaco è come un seme gettato in un terreno. Un esempio? Il cuore della donna è più piccolo, pesa di meno e con coronarie di calibro minore. E non è solo questione di dimensioni: la stessa miosina, la proteina che fa contrarre il muscolo cardiaco, si esprime in modo differente nei due sessi. Ragion per cui, a parità di dosaggio, un farmaco prescritto per il cuore è destinato a produrre maggiori reazioni avverse nella donna, piuttosto che nell’uomo.


Quindi le donne subiscono più effetti collaterali?

Sì, e in diversi campi farmacologici. La donna manifesta più emorragie da farmaci antitrombosi, più squilibri elettrolitici da diuretici, più dolori muscolari (miopatie) da statine (farmaci usati per abbassare il colesterolo), più tosse da Ace-inibitori, una classe di antipertensivi molto in voga. Nell’insieme, il gentil sesso manifesta il 30% di effetti collaterali in più rispetto agli uomini. È chiaro, quindi, che se a una donna viene data la stessa molecola e allo stesso dosaggio degli uomini, senza tenere conto delle differenze nella farmacocinetica (il percorso che compie all'interno del corpo umano), si manifesteranno più effetti avversi. Tanto per rimarcare le differenze, nelle donne il flusso sanguigno è più elevato e ciò permette ai farmaci di raggiungere più celermente, nella stessa unità di tempo, gli organi-bersaglio. Infine, alcune medicine funzionano solo negli uomini. Prendiamo il caso della cardioaspirina (acido acetilsalicilico), prescritta per prevenire le tromboembolie nei soggetti a rischio. Fino a qualche anno fa questo antinfiammatorio veniva prescritto a entrambi i sessi, ma poi si è visto che nella donna non serve a prevenire attacchi al cuore e ictus. Non ne conosciamo la ragione, ma sappiamo che con “lei” non funziona.


Consigli per antinfiammatori e antidolorifici?

Sono molecole di cui spesso si abusa. Il mio consiglio da farmacologo che ha passato una vita a studiarli è: usateli il meno possibile. Non dipendete dal cachet per il mal di testa, il mal di schiena o i dolori mestruali. I farmaci non sono caramelle e ogni molecola è densa di effetti collaterali. Quanto alle donne che spulciano i “bugiardini” alla ricerca della posologia, ricordatevi che avete un peso e una massa corporea inferiore a quella degli uomini, per cui il principio attivo si “diluisce” meno nel corpo. A parità di dosaggio, nella stessa unità di tempo, la donna mostra infatti una concentrazione ematica maggiore della molecola assunta. Più benefica? No. Più a rischio di effetti collaterali indesiderati.


Anche l’età ha un ruolo importante?

Certamente. In premenopausa la pressione sanguigna è più bassa che in post-menopausa e anche gli eventuali farmaci prescritti per l’ipertensione sono tendenzialmente diversi. Altre volte non è necessario cambiare molecola, ma occorre rivedere il dosaggio. E questo perché le fluttuazioni ormonali nella donna sono di gran lunga più importanti di quelle che avvengono negli uomini, anche in andropausa. Per il gentil sesso, quindi, vale la regola: non adagiatevi sulla stessa terapia per anni. Qualunque essa sia, “fate il tagliando” dallo specialista almeno una volta all’anno.


Come possiamo proteggerci noi donne?

Innanzitutto occorre avere una maggiore consapevolezza nella gestione dei farmaci, anche quelli “di scorta” che vengono malamente conservati per anni negli armadietti dei medicinali. Occorre ricordarsi che la Rete Nazionale di Farmacovigilanza registra molte più segnalazioni di reazioni avverse nei pazienti femminili che in quelli maschili, anche per quanto riguarda i vaccini (compreso quelli anti-Covid) che innescano una reazione anticorpale più rapida e massiccia nelle donne. Inoltre, ricordiamo che ogni farmaco viene metabolizzato dal fegato, ma che il metabolismo epatico è diverso negli uomini e nelle donne, dipendendo da un complesso di proteine chiamato citocromo P450.

Un esempio? L’enzima CYP1A2 si esprime meglio negli uomini, fatto che porta a una maggiore assimilazione di caffeina, lidocaina (un anestetico) e morfina (potente antidolorifico). La donna, invece, mostra una maggior espressione genica dell’enzima CYP2A26 che la fa assimilare di più la nicotina (quindi, il fumo di sigaretta è ancora più dannoso per “lei”) e i farmaci ansiolitici quali le benzodiazepine. Ragion per cui, nel caso in cui questi farmaci vengano prescritti per curare l’ansia, bisognerebbe provare a usarli a un dosaggio leggermente inferiore di quello indicato sul foglietto illustrativo, riferito agli uomini. L’ideale sarebbe procedere per gradi, con una dose di ansiolitico in ordine crescente, per verificarne a mano a mano gli effetti e correggere il tiro. Si tratta, comunque, di “prove tecniche” che vanno fatto sotto stretto controllo medico, tenendo sempre bene a mente che la risposta a un farmaco è molto soggettiva. Uomini o donne che siano.


Attenzione al cuore

Infarto e ictus nella donna provocano il 40% di mortalità, calcolata sia sull’evento acuto sia a distanza di sei mesi-un anno. Per contro, il tasso di mortalità negli uomini è la metà, il 20%. Questo perché si ritiene ancora che l’infarto sia appannaggio maschile, quando i numeri ci dicono che in postmenopausa la forbice tra i due sessi si chiude e le donne finiscono per ammalarsi tanto quanto gli uomini. Perché viene a cadere la protezione ormonale, ma anche perché negli ultimi 20 anni è aumentato il fumo tra il sesso femminile, insieme ad altri fattori di rischio quali stress, sedentarietà, incremento del peso corporeo (l’11% di donne è obeso e ben il 44% in sovrappeso), diabete di tipo 2. Le donne, inoltre, sono meno informate sui sintomi dell’infarto. La maggior parte crede che il campanello di allarme sia il dolore retrosternale irradiato al braccio sinistro, ma ciò è tipico degli uomini. In loro, i segnali sono sfumati: malessere generale, dolore al braccio destro, al collo o tra le scapole, fiato corto, nausea, vomito e disturbi allo stomaco. Meno allenata a decifrare i sintomi, la donna arriva tardi in pronto soccorso. A volte, persino gli infermieri del triage le danno il codice verde.



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