La scorsa estate una notizia ha rapidamente invaso i social network, scatenando discussioni nei gruppi dedicati alla salute e al benessere: “Scienziati tedeschi hanno creato un gel capace di rigenerare la cartilagine, addio protesi e dolori articolari”. Dietro quella che è stata presentata come una scoperta rivoluzionaria si nasconde in realtà un prodotto già noto da anni: il ChondroFiller, un gel a base di collagene sviluppato in Germania in collaborazione con il Fraunhofer Institute di Stoccarda e commercializzato dal 2013 dall’azienda Meidrix.
Il suo obiettivo è favorire la rigenerazione della cartilagine articolare danneggiata, ma – contrariamente a quanto lasciano intendere molti post virali – non si tratta di un rimedio “miracoloso” né di un trattamento che fa ricrescere la cartilagine autonomamente. Il gel viene applicato durante un intervento chirurgico in artroscopia, spesso in combinazione con altre tecniche, e richiede l’immobilizzazione dell’articolazione per almeno 48 ore dopo la procedura.
Frutto di un lungo cammino
«La medicina moderna si fonda sull’Evidence-Based Medicine (EBM), cioè su risultati supportati da evidenze scientifiche solide», spiega il dottor Daniele Comba, ortopedico presso il Centro Medico Diagnostico di Torino, presidente e fondatore del Gruppo CO.GI.TO. (team torinese di Chirurgia Conservativa del Ginocchio). «È su questo principio che si muovono i ricercatori, anche nel campo della rigenerazione cartilaginea, uno dei settori più esplorati della medicina ortopedica».
Negli anni, infatti, sono stati condotti numerosi studi e sperimentazioni su diverse sostanze e metodiche per affrontare uno dei problemi più diffusi: il danno cartilagineo. «Si stima che questa condizione interessi tra il 20% e il 30% della popolazione mondiale, una percentuale destinata ad aumentare con l’invecchiamento generale della popolazione», indica l’esperto.
L’aumento dell’aspettativa di vita comporta una maggiore necessità di mantenere in salute le articolazioni e di trovare soluzioni efficaci per compensare l’usura della cartilagine. È facile quindi comprendere perché questo ambito di ricerca sia diventato particolarmente attrattivo non solo dal punto di vista medico, ma anche economico.
Oggi sul mercato esistono diversi prodotti classificati come dispositivi medici (e non come veri e propri farmaci), che mirano a stimolare la produzione o la rigenerazione delle cellule cartilaginee. Tuttavia, le cellule della cartilagine – i condrociti – hanno una capacità di replicazione molto limitata, a differenza di altri tessuti del corpo umano: è proprio questa caratteristica a rendere la rigenerazione della cartilagine una delle sfide più complesse della medicina moderna.
Cartilagine, le nuove frontiere della ricerca
«La ricerca si muove anche sul piano genetico, immunologico e biologico per cercare di comprendere come stimolare la replicazione dei condrociti», spiega Comba. «In laboratorio si è visto che queste cellule possono effettivamente replicarsi, ma in vivo, cioè all’interno dell’organismo, i risultati sono stati finora deludenti».
Per questo motivo la scienza ha iniziato a esplorare cellule alternative, come le cellule mesenchimali, simili alle cellule staminali fetali. Queste cellule, presenti in diverse parti del corpo umano e in particolare nel midollo osseo, hanno una caratteristica fondamentale: sono pluripotenti, cioè possono trasformarsi in diversi tipi di tessuto a seconda dell’ambiente in cui vengono inserite.
Una delle tecniche più famose nate da questa linea di ricerca è quella delle microfratture, un approccio chirurgico che consiste nel praticare piccoli fori nell’osso sottostante la cartilagine danneggiata. «Il meccanismo è semplice ma ingegnoso: i fori praticati nell’osso causano un leggero sanguinamento che rilascia cellule e fattori di crescita», racconta l’ortopedico. «Le cellule mesenchimali, intrappolate nel coagulo che si forma, liberano così il loro potenziale rigenerativo, trasformandosi in un tessuto simile alla cartilagine».
Tuttavia, si tratta di una fibrocartilagine e non della cartilagine “originale” di tipo ialino che riveste naturalmente le articolazioni. «È una sorta di cartilagine cicatriziale», precisa Comba. «Non ha la stessa resistenza o elasticità della cartilagine ialina, ma può comunque offrire una buona protezione e contribuire a ridurre il dolore articolare».
La tecnica delle microfratture, sviluppata negli anni ’90 dal chirurgo americano Richard Steadman a Vail, in Colorado, si è rapidamente diffusa in tutto il mondo. «All’epoca rappresentò un passo avanti importante: era un metodo relativamente semplice e con risultati discreti, soprattutto nei pazienti giovani e per lesioni di piccole dimensioni», ricorda il dottor Comba. «Tuttavia, non era adatta ai casi di artrosi avanzata o degenerativa dell’anziano».
Dalle microfratture ai nuovi biomateriali
Con il tempo, la ricerca ha proseguito su altre strade. Tra queste, quella di coltivare i condrociti in laboratorio e successivamente trapiantarli nel paziente. «Questa tecnica inizialmente sembrava promettente, poi i risultati si sono rivelati più modesti del previsto, con limiti legati alla stabilità e alla qualità del tessuto ricostruito», ammette l’esperto.
Oggi gli studi più recenti stanno esplorando approcci ancora più innovativi, come l’uso di centrifugati di tessuto osseo e cartilagineo, una sorta di “impasto biologico” ottenuto mescolando cellule e frammenti prelevati dal paziente stesso. «Questo materiale viene applicato come una crema sulle aree danneggiate e i primi risultati sembrano incoraggianti. È una strada nuova, che dovrà però essere ancora validata da studi clinici a lungo termine».
Un’altra area di ricerca riguarda invece l’utilizzo di sostanze iniettabili all’interno delle articolazioni, che agiscono come una vernice protettiva sulla cartilagine, rallentando o riducendo i processi degenerativi. «In questo campo si stanno sperimentando derivati del tessuto adiposo, da cui vengono estratte cellule chiamate lipociti», continua l’esperto. «Anche in questo caso si ottiene un gel, una sorta di “pappetta” biologica, che contiene cellule mesenchimali e altre componenti in grado di proteggere la cartilagine e, potenzialmente, di stimolare un certo grado di rigenerazione».
Prodotti come il ChondroFiller si inseriscono in questo stesso principio: creare una barriera protettiva che riveste la superficie articolare, riducendo l’attrito e offrendo un ambiente più favorevole ai processi di riparazione del tessuto. Tuttavia, si tratta di tecniche complementari più che risolutive.
Nessuna soluzione miracolosa, ma tanta ricerca
Ogni nuovo dispositivo o trattamento deve essere testato in modo rigoroso: prima su volontari, poi su gruppi più ampi di pazienti, fino all’approvazione da parte delle autorità competenti, ovvero la FDA negli Stati Uniti e gli enti regolatori europei.
«Solo studi multicentrici, condotti su numeri elevati di pazienti e con protocolli scientificamente validi, possono dimostrare un reale beneficio clinico», sottolinea l’ortopedico. «Si confrontano i risultati dei pazienti trattati con la nuova sostanza con quelli di un gruppo di controllo che riceve un placebo o un trattamento standard, analizzando poi gli effetti anche a livello microscopico per verificare la formazione di nuova cartilagine».
E qual è la situazione oggi? «Al momento, non esistono ancora studi scientifici che dimostrino la superiorità di una tecnica rispetto alle altre», chiarisce Comba. «I risultati ottenuti con acido ialuronico, cellule mesenchimali, tecniche di microfrattura o prodotti come il ChondroFiller si equivalgono, con percentuali di efficacia simili. Nessun metodo ha dimostrato un vantaggio clinico significativo rispetto agli altri».
Di conseguenza, entrano in gioco anche considerazioni economiche: se più trattamenti garantiscono risultati paragonabili, il costo e la sostenibilità diventano fattori determinanti. «È chiaro che se una sostanza costa dieci volte più di un’altra con la stessa efficacia, la scelta è inevitabile», osserva Comba. «Purtroppo, però, nel settore medico e farmaceutico le spinte commerciali sono forti e spesso i nuovi prodotti vengono promossi come “migliori” senza che ci siano prove scientifiche solide a supporto».
Come orientarsi tra promesse e realtà
«Quando si affronta un problema ortopedico, è fondamentale rivolgersi a uno specialista qualificato e a centri di comprovata serietà, indipendenti da interessi commerciali», suggerisce Comba. La medicina moderna si muove sempre di più verso un approccio personalizzato, che tiene conto dell’età, del grado di usura articolare e delle caratteristiche del singolo paziente. È l’unico modo per scegliere il trattamento più appropriato.
Guardando al futuro, l’esperto resta comunque ottimista: «Sono convinto che prima o poi troveremo una soluzione davvero efficace per la rigenerazione della cartilagine. La ricerca va avanti e i progressi che vediamo oggi ci fanno pensare che, forse, non siamo così lontani da quel traguardo».
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