All’inizio può sembrare solo un fastidio passeggero: un boccone che “non scende”, la sensazione che il cibo resti bloccato dietro lo sterno o un rigurgito improvviso dopo aver mangiato. Ma se questi episodi si ripetono, la causa potrebbe essere una patologia poco conosciuta, che interferisce con uno dei gesti più naturali del corpo: la deglutizione. Si chiama acalasia esofagea ed è una malattia rara che altera la capacità dell’esofago di spingere il cibo verso lo stomaco.
Spesso i sintomi compaiono in modo graduale e vengono inizialmente sottovalutati o confusi con disturbi più comuni, come il reflusso o l’ansia. Per questo, può trascorrere molto tempo prima che il paziente arrivi a una diagnosi corretta. Oggi però, grazie a strumenti diagnostici sempre più precisi e a trattamenti mini-invasivi, riconoscere e curare questa patologia è diventato più semplice, permettendo a chi ne soffre di tornare a mangiare e vivere con serenità.
Cos'è l'acalasia esofagea
L'acalasia esofagea è una malattia rara che altera la motilità dell’esofago. «In condizioni normali, l’esofago trasporta il cibo verso lo stomaco grazie a movimenti coordinati chiamati peristalsi, mentre lo sfintere esofageo inferiore, una zona di alta pressione, si rilassa per permettere il passaggio del bolo alimentare», spiega il dottor Stefano Santi, direttore del Centro regionale per la diagnosi e la terapia delle malattie dell’esofago “Mauro Rossi” presso il Nuovo Santa Chiara - Ospedale Cisanello di Pisa. «Nell’acalasia questo delicato meccanismo viene compromesso: la peristalsi è inefficace e lo sfintere inferiore non si rilascia correttamente».
Pur essendo rara, l’acalasia rappresenta l’alterazione della motilità esofagea più comune. Ogni anno si registrano circa 1-2 nuovi casi ogni 100.000 persone, mentre il numero totale dei pazienti che convivono con la malattia è circa dieci volte maggiore, cioè circa 10 ogni 100.000 abitanti.
Quali sono le cause dell'acalasia esofagea
Le cause dell’acalasia esofagea non sono note. Non esistono fattori genetici o familiari chiaramente associati alla malattia e la sua origine rimane oggetto di studio. Ciò che si sa con certezza è che il disturbo nasce da un'alterazione del funzionamento dei nervi che controllano i muscoli dell’esofago, responsabili dei movimenti che spingono il cibo verso lo stomaco.
Secondo le ipotesi più accreditate, alla base potrebbe esserci un processo di tipo autoimmune: il sistema immunitario, per ragioni ancora sconosciute, aggredirebbe alcune cellule nervose dell’esofago, compromettendo la loro capacità di coordinare la peristalsi e di rilassare correttamente lo sfintere esofageo inferiore. In assenza di questo rilassamento, il cibo fatica a passare nello stomaco e tende a ristagnare, causando progressivamente i sintomi tipici della malattia.
Quali sono i sintomi dell'acalasia esofagea
L’acalasia può manifestarsi a qualsiasi età e colpisce uomini e donne in egual misura, anche se è più frequente con l’avanzare degli anni: negli over 70 si osserva, infatti, fino a cinque volte più spesso che nei giovani adulti.
Il sintomo principale – e spesso il primo a comparire – è la difficoltà a deglutire, chiamata disfagia. «Si tratta del disturbo più caratteristico dell’acalasia, presente nella quasi totalità dei pazienti», spiega il dottor Santi. «All’inizio può comparire solo in modo saltuario, magari nei periodi di stress o di maggiore stanchezza, ma tende a peggiorare nel tempo. In certi casi, la disfagia può essere “paradossa”: più marcata con i liquidi che con i cibi solidi».
Con il progredire della malattia compare quasi sempre anche il rigurgito, cioè il ritorno in bocca di cibo non digerito. Questo accade perché l’esofago, non riuscendo più a spingere correttamente il bolo alimentare, tende a dilatarsi e a trattenere parte del contenuto ingerito. Il rigurgito può essere particolarmente fastidioso di notte, quando si è sdraiati, e talvolta può causare tosse o piccoli episodi di aspirazione nei polmoni, con il rischio di infezioni respiratorie.
Tra i sintomi meno comuni si segnalano dolore o bruciore retrosternale, dovuti a contrazioni anomale dell’esofago, spesso confusi con il reflusso gastroesofageo. In alcuni pazienti, invece, l’unico segnale della malattia può essere una persistente alitosi, causata dal ristagno di cibo nell’esofago.
Come si diagnostica l'acalasia esofagea
Di solito è la difficoltà a deglutire a spingere il paziente a rivolgersi al medico. «Il primo passo nella valutazione è la esofagogastroduodenoscopia, un esame che permette di osservare direttamente l’esofago e lo stomaco», spiega l’esperto. «Questo serve principalmente a escludere altre possibili cause dei sintomi, come infiammazioni o tumori. Nei pazienti con acalasia, l’endoscopia appare di solito normale, anche se può mostrare una distensione più o meno marcata dell’esofago e/o una sensazione di scatto al passaggio dello strumento attraverso il cardias».
Se la gastroscopia non evidenzia altre patologie, il paziente viene indirizzato a una valutazione più approfondita della motilità esofagea, cioè del modo in cui l’esofago si muove per spingere il cibo verso lo stomaco. «L’esame chiave in questo caso è la manometria esofagea ad alta risoluzione», continua il dottor Santi, «che consiste nell’inserimento di un sottile sondino nell’esofago per misurare i movimenti e la pressione delle pareti esofagee. Questo test permette di capire se lo sfintere esofageo inferiore non si rilassa correttamente e se l’esofago non riesce a spingere il cibo come dovrebbe».
Oltre a confermare la diagnosi, la manometria aiuta a distinguere i diversi sottotipi di acalasia (tipo 1, tipo 2 e tipo 3), informazioni fondamentali per scegliere il trattamento più adatto a ciascun paziente e massimizzare l’efficacia delle cure.
Come si cura l'acalasia esofagea
Il trattamento dell’acalasia non può ancora agire sulla causa della malattia, che rimane sconosciuta, ma punta a alleviare i sintomi e a migliorare il passaggio del cibo dall’esofago allo stomaco. L’obiettivo è ridurre la pressione esercitata dallo sfintere esofageo inferiore, la “valvola” che separa l’esofago dallo stomaco e che, nei pazienti con acalasia, non si rilassa correttamente. «In altre parole, si cerca di “abbattere” questa barriera, consentendo al bolo alimentare di transitare senza ostacoli», semplifica il dottor Santi.
Tra le opzioni meno invasive c’è la dilatazione pneumatica, una procedura endoscopica in cui, sotto sedazione, un palloncino viene posizionato all’altezza dello sfintere e gonfiato ad alta pressione per alcuni secondi. Questo permette di allentare temporaneamente le fibre muscolari e facilitare la deglutizione. Si tratta di un intervento rapido, generalmente in day hospital, con effetti spesso significativi, anche se non definitivi: può rendersi necessaria una nuova dilatazione dopo qualche anno. «È indicata soprattutto per pazienti anziani o con condizioni che rendono rischiosi interventi più complessi», aggiunge il dottor Santi, precisando che le complicanze sono rare, con perforazioni dell’esofago che si verificano in meno dello 0,5% dei casi.
Un’altra opzione, utilizzata nei pazienti più fragili o con elevato rischio chirurgico, è l’iniezione di tossina botulinica nel punto in cui l’esofago si collega allo stomaco. Effettuata durante una semplice endoscopia, questa tecnica consente di rilassare temporaneamente la muscolatura, migliorando la deglutizione. L’effetto, tuttavia, è transitorio (dura in genere meno di un anno) e tende a ridursi con le applicazioni successive.
Il trattamento più efficace e duraturo resta la miotomia esofagea secondo Heller, spesso completata con la plastica antireflusso secondo Dor. «Si tratta di un intervento chirurgico, eseguito con tecnica mini-invasiva laparoscopica, che consiste nel sezionare le fibre muscolari dello sfintere esofageo inferiore, riducendo la pressione e permettendo così al cibo di passare liberamente nello stomaco», spiega il dottor Santi. «Per prevenire il reflusso acido, il chirurgo crea una piccola “plicatura” del fondo gastrico, ricostruendo un meccanismo di chiusura naturale che protegge l’esofago senza ostacolare la deglutizione».
Negli ultimi anni si è affermata anche una nuova procedura, la miotomia esofagea transorale (POEM, dall’inglese Per-Oral Endoscopic Myotomy), che unisce l’efficacia dell’intervento chirurgico a un approccio completamente endoscopico e mini-invasivo. «Con la POEM si entra attraverso la bocca, come in una normale gastroscopia, e si crea un piccolo tunnel nella parete dell’esofago per sezionare le fibre muscolari responsabili dell’ostacolo al passaggio del cibo», chiarisce l’esperto.
L’intervento, eseguito in anestesia generale, dura in media meno di un’ora e non richiede incisioni esterne. Dopo un giorno di dieta liquida e pochi giorni di alimentazione semisolida, il paziente può tornare a mangiare normalmente. È indicata per tutte le forme di acalasia, in particolare in quella di tipo 3, e anche per alcuni disturbi spastici dell’esofago, con ottimi risultati a lungo termine. A differenza del trattamento chirurgico, però, questa procedura non crea un meccanismo anti-reflusso e, pertanto, espone il paziente al rischio di sviluppare una malattia da reflusso gastroesofageo nel 50% dei casi.
L’intervento di Heller-Dor e la POEM rappresentano oggi le due opzioni più efficaci per il trattamento definitivo dell’acalasia. La scelta tra l’una e l’altra dipende dalle caratteristiche del paziente, dall’esperienza del centro e dal tipo di alterazione motoria diagnosticata.
A chi rivolgersi
Riconoscere i primi segnali dell’acalasia è fondamentale per arrivare a una diagnosi precoce e migliorare l’efficacia dei trattamenti. I campanelli d’allarme più comuni – come la difficoltà a deglutire, il rigurgito o la sensazione che il cibo “si fermi” dietro lo sterno – non vanno sottovalutati. Il primo passo è sempre rivolgersi al medico di base, che potrà prescrivere una gastroscopia per escludere altre cause più comuni e indirizzare il paziente verso un approfondimento specialistico.
«L’ideale è che il paziente venga poi valutato in centri specializzati nella diagnosi e nel trattamento dei disturbi motori dell’esofago», consiglia il dottor Santi. «Si tratta di strutture che dispongono di tecnologie e competenze specifiche, come la manometria ad alta risoluzione, e di un’équipe multidisciplinare in grado di offrire il trattamento più adeguato a ciascun caso».
Poiché l’acalasia è una malattia rara, non tutti i centri ospedalieri dispongono dell’esperienza necessaria per gestirla in modo ottimale. In Italia i centri di riferimento sono distribuiti soprattutto nel centro-nord, ma è possibile rivolgersi anche all'Associazione Libera Malati Acalasia e altre malattie dell'esofago, che rappresenta una preziosa risorsa per ottenere informazioni aggiornate sui centri specializzati e per condividere esperienze e percorsi di cura.
Arrivare presto alla diagnosi non solo consente di evitare anni di disturbi e di errori diagnostici – in passato la disfagia veniva talvolta interpretata come un disturbo psicologico, il cosiddetto “bolo isterico” – ma permette anche di intervenire tempestivamente, preservando la qualità di vita e riducendo il rischio di complicanze.
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