Violenza sui medici, è boom: le cause di un fenomeno preoccupante

I casi di aggressioni verbali o fisiche nel 2022 sono aumentati rispetto al 2021. Anelli della Federazione dei Medici di famiglia: «Servirebbe un mediatore nei Pronto Soccorso»



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«Chi aggredisce un medico, aggredisce se stesso». Lo ripete da qualche tempo il presidente della Federazione dei Medici di Famiglia, Filippo Anelli, dopo che anche in occasione della terza Giornata nazionale dei medici e del personale sanitario, assistenziale e dei volontari lo scorso 20 febbraio ha puntato le attenzioni su un fenomeno preoccupante.

Secondo le stime dell’Istituto Superiore di Sanità, che ha preso in esame i casi di violenze, fisiche o verbali, ma anche infortuni, il numero supera abbondantemente i 2.000 casi all’anno (anno 2020). «Il problema esisteva già nel periodo pre-pandemia Covid, mentre durante l’emergenza sanitaria si era assistito a un calo del fenomeno. Con la fine delle restrizioni, invece, i numeri sono tornati a salire», spiega Anelli.

Le aggressioni vere e proprie segnalate dalle Regioni, infatti, sono aumentate nel 2022 rispetto al 2021, passando da 60 a 85. I numeri del Ministero della Salute, raccolti tramite il Sistema informativo per il monitoraggio degli errori in sanità, danno anche un’idea della localizzazione del fenomeno: lo scorso anno Puglia e Sicilia sono state le Regioni più colpite, con 20 eventi ciascuna segnalati, soprattutto nei centri di medicina d'urgenza – come Pronto Soccorso e Guardia medica - e psichiatria.

Violenza sui medici, un fenomeno preoccupante

«Il tema della violenza ci ha segnati profondamente, soprattutto dopo il caso clamoroso di Paola Labriola, la psichiatra di 57 anni uccisa con 57 coltellate il 4 settembre del 2013 a Bari. Sono passati 10 anni, durante i quali sono accaduti altri episodi su tutto il territorio nazionale. La sensibilizzazione è passata anche dalla realizzazione di un docufilm, Notturno, disponibile su Amazon a un prezzo simbolico, che documenta il dramma soprattutto delle colleghe donne che lavorano in strutture isolate o in zone di particolare disagio sociale. Per questo abbiamo promosso e ottenuto l’approvazione della legge 113/2020 che riconosce la procedibilità d’ufficio in caso di reati di violenza al personale sanitario», spiega Anelli.

Quanti medici denunciano e quanti no (e perché)

In precedenza, infatti, i sanitari spesso non presentavano denuncia. «Molti colleghi preferiscono non farlo neppure ora e i motivi sono diversi: da un lato la lentezza della macchina della giustizia che non incoraggia per il timore di lunghi processi; ma ci sono anche motivi etici perché molti sono frenati dall’agire contro un paziente, nonostante l’aggressione, anche perché spesso si tratta di persone che provengono da ambienti disagiati. Questo ci aveva spinto proprio a chiedere la procedibilità d’ufficio, in modo da evitare la denuncia», spiega il presidente della Fnomceo, la Federazione degli Ordini dei Medici.

Ma è servita la legge? La sensazione è che non abbia affatto risolto il problema. «È così: nonostante preveda anche un inasprimento delle pene per i colpevoli, non è servita ad arginare la situazione come auspicavamo. La legge probabilmente non viene applicata in modo completo perché mancano dei protocolli: in parole semplici, serve che comunque l’azienda ospedaliera faccia la segnalazione del caso alla Procura, in modo che siano avviate le indagini, invece questo spesso non accade per un rimbalzo di responsabilità. Bisognerà ripensare a questo aspetto e intervenire quanto prima, altrimenti la legge non servirà come strumento di prevenzione», chiarisce Anelli.

Distribuzione sul territorio: quante aggressioni a medici e dove

Nella classifica del Ministero, alle spalle di Puglia e Sicilia, si trovano la Toscana con 8 episodi di violenza a danno di sanitari segnalati lo scorso anno, la Campania e il Piemonte con 7, la Lombardia con 6, la Calabria con 5, le Marche con 4, l’Emilia Romagna, l’Abruzzo e la Sardegna 2, infine Umbria e Provincia Autonoma di Bolzano con un solo atto di violenza segnalato. Mancano ancora all’appello, invece, i dati relativi alla regione Lazio.
Il Ministero della Salute, tuttavia, ha chiesto di verificare e aggiornare i dati per avere un quadro ancora più completo.

Violenza sui medici, chi sono le vittime

«Le vittime sono soprattutto i medici del Pronto soccorso e della Guardia medica, insieme alle strutture psichiatriche. Ma sono cresciuti i casi anche tra il personale del 118 e dei medici di famiglia – spiega il presidente della Fnomceo –. Questo è frutto di un disagio avvertito dai cittadini che hanno a che fare con un'organizzazione della sanità che spesso non riesce a rispondere ai bisogni immediati. D’altro canto anche i medici sono lasciati soli, persino quelli di famiglia con i quali in passato si è sempre mantenuto un rapporto di fiducia: come è possibile rispondere a tutti quando si hanno 2.000 assistiti? C’è carenza di medici anche a livello ospedaliero, per via dei pensionamenti, e soprattutto tra quelli dell’urgenza, come il Pronto soccorso, perché sempre meno medici vogliono seguire questa strada, poco remunerativa e spesso dai ritmi estenuanti. Il risultato sono spesso l’impossibilità di rispondere anche solo al telefono agli assistiti oppure sono le lunghe e snervanti attese al pronto soccorso».


«Servirebbe una nuova figura di mediatore tra pazienti e medico»

Come si potrebbe intervenire, quindi, per risolvere il fenomeno? «Sono convinto che il problema abbia a che fare anche con la comunicazione. Credo che sarebbe utile una figura di mediatore. Faccio un esempio concreto, partendo da un caso recente di aggressione a una guardia giurata fuori da un ospedale: tutto è nato perché il familiare di un paziente in Pronto soccorso non aveva notizie del padre da due ore, ha cercato di avere informazioni entrando in un’area interdetta al pubblico ed è stato fermato, giustamente, dal vigilante, dando in escandescenza. Questo ci fa capire come ci sia bisogno di parlare, di dedicare tempo ai pazienti mentre oggi quello che manca è proprio il tempo», dice Anelli.

Che conclude: «Io penso che si potrebbero utilizzare dei mediatori, che potrebbero intervenire proprio in situazioni del genere, quando l’attesa di protrae, e che tranquillizzi i familiari nei quali comprensibilmente l’ansia cresce, specie nei Pronto soccorso. Sarebbe un modo per rasserenare l’ambiente e rientrerebbe nell’idea più ampia prevista dalla legge 119/2011 in tema di tutela della salute, che considera il tempo della comunicazione come tempo di cura. Il problema è che il nostro sistema sanitario nazionale non è organizzato per questo, salvo rare eccezioni sul territorio».


1 marzo 2023

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