Nei trapianti si fanno passi da gigante

Un grande esperto italiano ci illustra i successi in una branca della chirurgia di grande complessità. Aumentano gli interventi, le percentuali di riuscita, la qualità della vita dopo l’operazione



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Nuovo passo avanti nel campo dei trapianti: per la prima volta è stato identificato il gene che provoca il temuto rigetto dell’organo donato. Si chiama LIMS1 e, se diverso tra donatore e ricevente, contribuisce a compromettere l’esito dell’intervento.

La scoperta, frutto di uno studio condotto dalla Columbia University di New York, in collaborazione con alcuni centri europei tra i quali la Città della Salute di Torino e l’Università di Torino, apre un nuovo scenario: la possibilità, in un futuro non molto lontano, di identificare il donatore migliore, aumentando così l’indice di successo dell’intervento.

Non è però la sola novità: ne abbiamo parlato con il professor Renato Romagnoli, chirurgo recordman del Centro trapianti di fegato dell’Ospedale Molinette di Torino dove, dal 1990 ad oggi, sono stati effettuati ben 3280 interventi.



I progressi nelle terapie antirigetto

La scoperta del nuovo gene LIMS 1 darà sicuramente un contributo nel miglioramento delle terapie antirigetto, ma già oggi si stanno utilizzando nuovi cocktail di farmaci che azzerano le reazioni dell’organismo per evitare che i linfociti partano all’attacco per distruggere il nuovo organo reputandolo un nemico, e diano il via così al rigetto.

Immunosoppressori come il tacrolimus o la ciclosporina, vengono combinati con altri farmaci come il cortisone, o con anticorpi monoclonali contro i recettori dell’interleuchina 2 che silenziano le reazioni infiammatorie e immunologiche, favorendo così l’attecchimento.

«Nello stesso tempo, si sta cercando di minimizzare gli effetti dannosi che questi farmaci hanno sul resto dell’organismo», spiega il professor Romagnoli.

«Vanno assunti per tutta la vita e possono aumentare l’incidenza di infezioni, facilitare la strada al diabete, o dare problemi renali. Per questo, numerosi studi stanno cercando di identificare protocolli “alternativi” per la loro somministrazione: per esempio, utilizzarli subito dopo l’operazione, fase in cui sono fondamentali, per poi scalarli progressivamente e addirittura sospenderli in alcuni pazienti, in sicurezza e senza il rischio di far fallire il trapianto».


Il “ringiovanimento” degli organi

«Un’altra grande novità è una nuova tecnologia che permette, attraverso l’utilizzo di macchine speciali, di “rigenerare” un rene, un fegato o un polmone (fa eccezione il cuore) prima che vengano impiantati, in modo che sopportino meglio lo shock biologico e metabolico che subiscono nei primissimi minuti in cui vengono collocati in un nuovo corpo», racconta il professor Romagnoli.

«Quando vengono irrorati dal sangue del ricevente, ossigeno e globuli bianchi scatenano una reazione immunologica e infiammatoria violentissima, ma grazie al trattamento di perfusione ex vivo (così si chiama questa tecnologia), gli organi reggono meglio questa aggressione».

Ciò si traduce nel non dover più mettere un limite d’età per i donatori, riducendo così le liste d’attesa: il fegato o il rene di un over 80, per esempio, nonostante gli acciacchi legati al passar del tempo o a malattie legate all’invecchiamento, dopo la rigenerazione ha ugualmente le “carte giuste” per salvare la vita di un malato. Proprio di recente, infatti, in Italia si è registrato il record d’età per la donazione: un novantasettenne ha dato il suo fegato, regalando una nuova vita a un sessantenne.

«Grazie al ricondizionamento anche la longevità degli organi trapiantati potrebbe aumentare», aggiunge il nostro esperto. «Già oggi il primato va al fegato, un organo che per natura sa rigenerarsi in proprio e ha una vita media dopo il trapianto di ben 25 anni, ma anche la durata degli altri organi con le nuove tecnologie è circa raddoppiata».



L’utilizzo in alcuni tumori

Oggi il trapianto può rappresentare addirittura una cura per il tumore. «Al momento è indicata solo per le neoplasie nel fegato, quali l’epatocarcinoma, nei confronti del quale ha dato risultati più che soddisfacenti: a un anno dall’intervento, garantisce la sopravvivenza al 95,4% dei pazienti, percentuale che si attesta all’84.4% dopo 5 anni», spiega Romagnoli.

«In casi selezionati, affiancato alle cure tradizionali come la radioterapia e la terapia farmacologica, sta rivelandosi efficace anche per tumori delle vie biliari e per le metastasi epatiche legate a tumori neuroendocrini, neoplasie che possono insorgere in qualsiasi parte dell’apparato digerente. Sono inoltre in atto sperimentazioni che ne stanno testando l’efficacia anche nei confronti delle metastasi legate alle neoplasie colon rettali».



La riduzione dei tempi di intervento

«Le tecniche chirurgiche oggi sono sempre più mirate e, grazie a un perfetto lavoro di squadra tra chirurghi, anestesisti e infermieri, i tempi di esecuzione di qualsiasi trapianto sono dimezzati: per quello di fegato si è passati da 11 a 6 ore, mentre un trapianto di cuore oggi dura dalle 3 alle 5 ore», conclude Romagnoli.



Crescono i donatori, calano le liste d’attesa

Con 1680 donatori, il 2018 è stato il secondo miglior anno di sempre in Italia per la donazione d’organo, confermando il trend 2014-2018 che ha visto una crescita delle donazioni pari al 24,4% e un calo delle liste d’attesa per avere un rene o un cuore.

In aumento anche il numero di italiani disposti a lasciare le proprie dichiarazioni di volontà alla donazione di organi: a fine 2018 erano quasi 4,5 milioni, con un aumento del 76% rispetto all’anno precedente.



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Articolo pubblicato nel n° 28 di Starbene in edicola dal 25 giugno 2019


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