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Dolcificanti “light” nel mirino: possono aumentare il rischio di demenza

Consumare regolarmente dolcificanti artificiali potrebbe accelerare il declino cognitivo, soprattutto nei soggetti più giovani e in chi soffre di diabete. Studi recenti evidenziano un legame con una maggiore età cerebrale e un rischio più alto di Alzheimer

Foto: iStock



Bibite “zero”, caramelle senza zucchero, dessert ipocalorici: l’universo degli snack light sembra fatto apposta per concedersi uno sfizio senza sensi di colpa. Ma a guastare la festa arriva un nuovo studio internazionale pubblicato sulla rivista Neurology, che accende i riflettori su sette dolcificanti tra i più utilizzati, ovvero aspartame, saccarina, acesulfame-K, eritritolo, sorbitolo, xilitolo e tagatosio.
Li troviamo ovunque: dal caffè addolcito artificialmente alle acque aromatizzate, fino a bibite gassate, energy drink, yogurt e dessert a basso contenuto calorico. Secondo i ricercatori, però, un loro uso abituale potrebbe accelerare l'invecchiamento del cervello, soprattutto nelle persone sotto i 60 anni e in chi soffre di diabete.

A sollevare il velo è un’ampia ricerca brasiliana che ha seguito per otto anni oltre 12.700 adulti, mettendo a confronto le loro abitudini alimentari con l’evoluzione delle capacità cognitive. I partecipanti sono stati suddivisi in tre gruppi in base alla quantità di dolcificanti consumati: dai circa 20 mg quotidiani dei più moderati ai 191 mg di chi ne faceva un uso elevato. Una dose che, nel caso dell’aspartame, corrisponde a una sola lattina di bibita “diet”. Il sorbitolo è risultato il più diffuso di tutti, con una media di 64 mg al giorno.

Cosa dice lo studio

Nel corso degli otto anni di osservazione, i volontari sono stati sottoposti più volte a test cognitivi che valutavano memoria, linguaggio, fluidità verbale e velocità di elaborazione, ovvero la rapidità con cui il cervello riesce a interpretare e utilizzare le informazioni. Dopo aver tenuto conto di variabili come età, sesso, pressione alta e patologie cardiovascolari, il risultato è apparso chiaro e tutt’altro che tranquillizzante.

«Chi consumava le quantità più elevate di dolcificanti presentava un declino cognitivo fino al 62% più rapido, equivalente a circa 1,6 anni di invecchiamento cerebrale aggiuntivo», spiega il professor Sandro Sorbi, direttore scientifico del presidio IRCCS Don Gnocchi di Firenze e ordinario di Neurologia all’Università di Firenze. «Persino il consumo intermedio mostrava un impatto significativo, con un calo del 35%, pari a 1,3 anni di età mentale in più».

Il fenomeno è risultato particolarmente marcato nei soggetti sotto i 60 anni, soprattutto per quanto riguarda la fluidità verbale, e nelle persone con diabete. Nessuna associazione significativa, invece, è emersa tra gli over 60.

I limiti della ricerca

«È importante sottolineare che si tratta di uno studio osservazionale», chiarisce il professor Sorbi. «I ricercatori hanno raccolto dati sulle abitudini alimentari dei partecipanti e li hanno messi in relazione con l’andamento delle loro funzioni cognitive. Questo significa che lo studio non prova che i dolcificanti causino direttamente il declino mentale, ma evidenzia un’associazione: chi ne consuma di più tende a mostrare un calo più rapido della memoria e delle capacità di pensiero. In altre parole, siamo di fronte a una correlazione, non a una causalità comprovata».

Un elemento degno di nota riguarda i diabetici, che sembrano essere il gruppo più esposto. Probabilmente perché, dovendo ridurre lo zucchero, ricorrono con maggiore frequenza ai dolcificanti artificiali. «Questi risultati si inseriscono in un quadro più ampio», aggiunge l’esperto. «Molti studi indicano che un elevato consumo di alimenti ultra-processati, dai fast food ai prodotti confezionati, si associa a un rischio maggiore di declino cognitivo e di malattie neurodegenerative, come l’Alzheimer. Al contrario, modelli alimentari come la dieta mediterranea, ricca di prodotti freschi, olio d’oliva e fibre, sembrano offrire una protezione, anche perché chi li segue tende naturalmente a limitare gli ultra-processati».

In questa direzione va un altro studio recente, pubblicato sul The Journal of Prevention of Alzheimer’s Disease, che ha analizzato il rapporto tra consumo di alimenti ultra-processati – prodotti industriali ricchi di additivi, zuccheri, grassi saturi e aromi artificiali, come bevande dolcificate, snack confezionati e carni lavorate – e rischio di demenza. La ricerca ha seguito per circa 13 anni oltre 1.300 adulti del Framingham Heart Study, uno dei più noti studi di coorte a lungo termine al mondo, avviato negli Stati Uniti per indagare i fattori di rischio cardiovascolare e le malattie croniche nella popolazione, monitorando sia le abitudini alimentari sia eventuali diagnosi cliniche di demenza e Alzheimer.

I risultati evidenziano che un consumo eccessivo di ultra-processati – dieci o più porzioni al giorno – era associato a un rischio di Alzheimer fino a 2,7 volte superiore rispetto a chi ne consumava quantità minori. L’effetto risultava particolarmente marcato nei partecipanti più giovani (<68 anni), mentre non sono emerse associazioni significative negli adulti più anziani o per la demenza in generale.

Quali potrebbero essere le cause

Gli esperti ipotizzano che cibi ultra-processati e dolcificanti possano influenzare il microbiota intestinale, spesso definito il “secondo cervello” per il suo ruolo nella digestione, nella produzione di nutrienti e nella comunicazione con il sistema nervoso. Alcune evidenze preliminari suggeriscono che le sostanze artificiali potrebbero alterare l’equilibrio dei batteri intestinali, favorendo processi infiammatori o interferenze nei segnali che collegano intestino e cervello.

«È bene sottolineare che si tratta ancora di ipotesi», precisa il professor Sorbi. «Tuttavia, secondo il principio di precauzione, un approccio adottato anche dall’Unione Europea che invita a limitare l’esposizione a sostanze potenzialmente rischiose in attesa di prove definitive, può essere sensato limitare l’uso di dolcificanti artificiali e orientarsi verso alternative più naturali, come frutta fresca, miele o marmellate semplici».

Serve prudenza, non allarmismo

Il messaggio principale è semplice: non è l’assunzione occasionale di dolcificanti artificiali a destare preoccupazione, ma il consumo continuativo e quotidiano. «Come dimostra lo studio, chi li usa frequentemente in più prodotti può accumulare quantità rilevanti senza accorgersene», ammette l’esperto. «Qualche biscotto a colazione, un caffè dolcificato dopo pranzo, un dessert nel pomeriggio: alla fine la somma può diventare significativa. La strategia più sensata è quindi la moderazione. Un dolcificante ogni tanto non crea problemi, ma non dovrebbe diventare la norma».

Per quanto riguarda lo zucchero naturale, invece, vale il buon senso: il cervello funziona a glucosio e non ci sono evidenze che quantità moderate di zucchero possano danneggiarlo. «Anche qui, il vero rischio nasce dall’eccesso, che può favorire diabete e altre problematiche metaboliche, fattori noti di rischio per la salute cerebrale», conclude il professor Sorbi. «In sintesi, serve prudenza, non allarmismo: fino a quando non conosceremo appieno gli effetti dei dolcificanti artificiali, limitarli e preferire fonti naturali di dolcezza rimane l’approccio più equilibrato per proteggere il cervello».


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