Coronavirus, perché non riusciamo a non uscire di casa

Lo dicono le cronache e i bollettini medici: non riusciamo a rispettare il decreto anti-Covid-19, usciamo ancora troppo. Ma perché? Lo abbiamo chiesto alla psicoterapeuta Chiara Nardini. «Dietro a quest’ansia da movimento, c’è un’idea (sbagliata) della vita odierna»



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Tutti chiusi in casa, ripetono da giorni in modo martellante medici, istituzioni e media. Soprattutto ora, che il Coronavirus continua a espandersi. E se l’appello non verrà seguito col dovuto rigore, potrebbe “arrivare il divieto assoluto alle attività all’aperto” fa sapere il governo italiano.

Gli scienziati ci dicono che non abbiamo ancora raggiunto il picco, che queste sono le settimane più rischiose e ci vuole la massima precauzione. Bisogna evitare in tutti i modi gli spostamenti non assolutamente necessari. Difficile da accettare? Con una certa probabilità sì, se l’amministrazione della Lombardia, la Regione più colpita dall’epidemia, assicura che, in base al controllo dei ponti radio dei cellulari, si è fermato solo il 60% degli spostamenti all’interno del territorio regionale (i dati si riferiscono al momento in cui andiamo in stampa). Un 40% di gente che esce, s’arrabbiano, è troppa per cercare di contenere i contagi.

A dispetto dei numeri in ascesa, sembra che non ci sia raccomandazione legislativa o divieto penale che tenga: tra la paura di ammalarsi (e fare ammalare) e la noia di rimanere a casa vince il fastidio di sentirsi in prigione. E, come dice Chiara Nardini, psicoterapeuta a Milano e Genova, in questa lotta – stressante – tra “vorrei uscire” e “non posso uscire” non c’è solo l’eterna sfida tra dovere e piacere, tra disciplina e trasgressione, ma qualcosa di più profondo.


Dottoressa Nardini, perché l'allarme sanitario, sempre più pressante, non basta a limitare le scelte della gente?
Nell’emergenza, se da una parte c’è la paura della vicinanza fisica con l’altro, dall’altra c’è anche una grande paura a modificare le nostre giornate. Non ci siamo abituati, facciamo fatica a fermarci anche solo per pochi minuti. È come quando siamo in mare, e crediamo che per stare a galla dobbiamo muoverci il più possibile. Mentre basterebbe fare dei respiri profondi. Solo che l’essere umano non riesce a tirare il fiato a pieni polmoni: se lo fa, sente (o ha angoscia di sentire) quello che c’è dentro. Ha timore di trovare il “vuoto” o brutte sensazioni: tristezza, rabbia, malinconia o qualsiasi altra emozione negativa tenuta sepolta per anni. Tutto questo, naturalmente, spaventa a priori.


Sta dicendo che abbiamo più paura di noi stessi che della possibilità di ammalarsi?
Nella società occidentale, l’azione ha una funzione anestetica sull’emotività: l’iperattività contemporanea (lavoro, viaggi, socialità ecc.) dà alle persone la certezza di andare bene così come sono. Ci diciamo, continuamente: faccio tante cose, perciò funziono, ho un valore, sono efficiente. Invece, quando ci fermiamo, entriamo in una dimensione mentale dove possiamo perdere il controllo della nostra vita, dal momento che la calma è uno spazio inesplorato, più legato all’essere che al fare o all’avere. È il luogo della riflessione, che c’impone di scoprirci e d’imparare ad accettarci per come siamo. Non è così scontato. In fondo, la nostra difesa principale è quella di “smuovere l’aria e l’acqua” intorno a noi, facendoci sentire vivi.


Ci lamentiamo tutti di non avere mai tempo per noi stessi ma poi non ne vogliamo sapere di rallentare. Non è stridente?
Assomigliamo a degli sportivi stanchi, stanchissimi: sulla carta sono contenti di appendere le scarpette al chiodo ma quando smettono d’allenarsi, si lasciano andare, si deprimono. È il paradosso di queste settimane: uscendo poco o niente, stando più soli e con meno impegni siamo entrati in zona relax. Pericolosa, poiché solo ora sentiamo quello che siamo, e non abbiamo più scuse per rimandare l’incontro con noi stessi. È come se ciascuno andasse a toccare una verità, la sua. Se da una parte lo desidera, dall’altra vede davanti a sé un baratro. Fatto di domande a cui deve dare delle risposte, e non ci riesce.


In questa serrata, ci sarà pure un lato positivo da sfruttare?
Si possono aprire nuovi scenari, entro i quali scoprire i pro e i contro della nostra vita. Al posto di protestare per i “limiti di circolazione”, osiamo, proviamo a esplorarci interiormente, registrando cose buone e meno buone. Se ne abbiamo la forza, iniziamo a fare pulizia di comportamenti, abitudini, situazioni che ci stanno stretti. Certo, non è uno snodo immediato o facile. Qualcuno potrebbe anche accorgersi che l’attivismo che ci connota, in realtà è una copertura che portiamo avanti per convenzioni sociali e culturali, ma che non ci soddisfa. Però, è solo nell’attimo in cui ci fermiamo che possiamo ascoltarci, e scoprire la verità. Soprattutto, possiamo fare qualcosa per cambiare. Altrimenti, continueremo a lamentarci, a passare sopra a tutto e a tutti, travolti dalla routine.


Articolo pubbicato nel n° 15 di Starbene, in edicola e nella app dal 24 marzo 2020


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