La sessualità nell’essere umano è una delle componenti che più ne impronta la personalità e la vita relazionale ed è sintesi di codificazione genetica, di educazione sociale e culturale, di vissuti personali e di influenze ambientali. Le sue manifestazioni sono molteplici; alcune, con espressività generica, sono riconducibili all’identità di genere, alla dimensione psico-emotiva e ai rapporti sociali; altre, più tipicamente afferenti alla sfera intima, sono legate all’attività sessuale e riconoscono come fine la gratificazione che deriva da sentimenti quali l’affetto e l’amore o da un bisogno biologico-relazionale, quale la ricerca del piacere e la procreazione.
Tali manifestazioni trovano un’armonica composizione nella sintesi amore-ricerca del piacere, con possibile finalità procreativa, ma sempre con la condivisione volitiva ed edonistica dell’attività sessuale da parte di entrambi i partner. Quando l’attività sessuale è praticata contro la volontà di un partner si concretizza una condizione di “violenza sessuale”. È un fenomeno sociale grave per la sua frequenza e per le pesanti inferenze psicologiche e fisiche che nelle vittime, soprattutto donne e bambini, comportano sequele che spesso le accompagnano e ne condizionano comportamenti e stili di vita per lungo tempo.
Le sequele fisiche che richiedono una valutazione sanitaria attengono a tre ambiti:
- le lesioni riportate nel corso della violenza: esiti di percosse, di traumi e della violenza dell’atto sessuale;
- il rischio di trasmissione di malattie sessualmente trasmesse (MST);
- il rischio di una gravidanza indesiderata, nelle donne fertili.
Lesioni riportate nel corso della violenza
Le lesioni riportate nel corso della violenza possono riguardare gli organi genitali o altre parti del corpo e dipendono dalle modalità con cui è stata condotta l’aggressione e dall’accanimento usato per ottenere la sottomissione passiva della vittima. Nella profilassi post-violenza tali lesioni hanno importanza in funzione dell’eventuale presenza di danni delle mucose e di sanguinamento che potrebbero facilitare la trasmissione di MST.
Rischio di trasmissione di malattie sessualmente trasmesse
La possibilità di trasmissione di MST dal responsabile della violenza alla vittima è un’evento possibile sia nei rapporti eterosessuali sia in quelli omosessuali. Gli interventi di prevenzione dopo violenza sessuale hanno il fine d’individuare o prevenire una MST e trovano una più forte motivazione ad essere applicate quando il “violento” è una persona sconosciuta.
Il rischio complessivo di acquisire una MST, dopo un unico episodio di violenza sessuale, varia dal 5 al 10%. Per la sifilide, l’Aids e l’epatite B il rischio è circa l’1%. Ovviamente, la probabilità di contagio varia a secondo dello stato infettivo dell’aggressore, dal numero degli assalitori, dalla modalità dell’aggressione, della tipologia della violenza sessuale, delle lesioni riportate dalla vittima, e così via. Secondo le linee guida 2006 del CDC (Centers for Desease Control and Prevention) statunitense una profilassi anti-MST deve essere offerta alla vittima nei casi di violenza sessuale e, a maggior ragione, se la vittima presenta segni di verosimile infezione da MST. La strategia che prevede l’aiuto sanitario, mirato alla prevenzione o alla terapia precoce delle MST, alle vittime di violenza sessuale prende in considerazione tre momenti:
- la prima valutazione dopo esposizione all’eventuale contagio;
- il follow-up o controllo dopo violenza;
- la valutazione a distanza degli esiti.
Una delle maggiori criticità della profilassi delle MST dopo violenza sessuale deriva dal differimento nel tempo del ricorso al controllo medico rispetto al momento dell’aggressione; tale comportamento, giustificato dalla tempesta emozionale che coinvolge la vittima e da altre motivazioni, determina un ritardo nella predisposizione di una strategia sanitaria contro le MST. In occasione della prima valutazione viene eseguita una visita medica generale, con particolare valutazione dell’apparato genitale e degli organi oggetto dell’abuso. In questa occasione si verifica lo stato infettivo della vittima e si programmano indagini ed interventi finalizzati alla prevenzione ed alla terapia di eventuali MST. Pertanto, i dati emersi dalla visita medica possono essere integrati con esami sierologici mirati alla ricerca di anticorpi contro alcune MST e con la ricerca culturale di germi responsabili di MST. Ancor prima della dimostrazione della presenza di una MST, quando ci sono incertezze o elementi che possono incrementare il rischio di contagio di MST, è possibile intraprendere un trattamento farmacologico, nella presunzione di una loro possibile presenza, per malattie quali la gonorrea, la sifilide, le infezioni da Chlamydia e da Tricomonas.
L’intervento profilattico è possibile anche contro l’epatite B (Hbv). Se alla prima visita dopo la violenza la vittima non è immunizzata contro l’epatite B può essere subito iniziata la vaccinazione anti-Hbv e, per una maggiore difesa immunitaria, possono essere somministrate immunoglobuline anti-Hbv, quando la violenza è stata subita da meno di 14 giorni e soprattutto da parte di persone tossicodipendenti o con modalità d’aggressione di gruppo.
Le indagini microbiologiche, il trattamento farmacologico e la profilassi immunitaria possono essere diversi in considerazione delle condizioni cliniche della vittima che è sempre chiamata ad esprimere il suo consenso ai percorsi di diagnosi e cura. La conoscenza dello stato infettivo del “violento”, quando è possibile ottenerla, può guidare gli interventi sulla vittima ed evitarle inutili trattamenti.
Considerata la frequenza delle MST, la vittima di una violenza sessuale potrebbe aver contratto una MST prima della violenza e, in tal caso, il primo controllo sanitario si rivela utile alla limitazione della diffusione delle MST.
Il follow-up o controllo dopo violenza è necessario perché alcune MST hanno un periodo d’incubazione lungo prima che si manifestino clinicamente o che diano segni valutabili. Il periodo d’incubazione delle MST può anche allungarsi quando la prima carica microbica infettante è di lieve entità e necessità di maggior tempo per esercitare l’attività patogena. Il follow-up ha il fine di valutare gli organi interessati nell’aggressione, di sorvegliare la comparsa nel tempo di segni di eventuali MST e del controllo degli esiti. È prevista una visita medica, a distanza di 1-2 settimane dalla prima, indagini sierologiche e microbiologiche, l’eventuale terapia farmacologica ed immunitaria.
Le indagini sierologiche e microbiologiche sono eseguite con intervalli temporali diversi a secondo dei periodi d’incubazione e della storia naturale delle singole MST. Se il trattamento profilattico per gonorrea, sifilide, infezioni da Chlamydia e da Tricomonas non è stato eseguito, si pratica, oltre alla ricerca culturale iniziale, un’altra dopo 15 giorni. I test sierologici per la sifilide si ripetono dopo sei settimane, tre e sei mesi.
La vaccinazione anti-Hbv, se è indicata ed è stata iniziata, nel follow-up si prosegue secondo le modalità previste dalla schedula vaccinale.
Sicuramente una delle paure maggiori, per la possibile severità della malattia, è quella di poter contrarre un’infezione da HIV (Aids). Considerato che nelle persone che si infettano con HIV gli anticorpi anti-HIV sono evidenti nel 90% dopo sei mesi dal contagio, è raccomandato il test per l’HIV alla prima visita dopo la violenza e poi a tre, sei e dodici mesi dalla violenza. Da questo deriva che, se lo stato infettivo dell’aggressore non è noto, lo stato d’ansia per l’evoluzione di un’eventuale infezione da HIV dura circa12 mesi e si associa al peso di uno stile di vita obbligato che porta la vittima ad assumere, per tale periodo, un comportamento tale da evitare la trasmissione ad altri dell’eventuale infezione contratta. A secondo dei casi e in una visione generale che deve tener conto del quadro clinico, delle caratteristiche della violenza e del consenso della vittima, è consigliabile iniziare un trattamento antivirale contro l’HIV e mantenerlo per quattro settimane.
Il controllo post-violenza comprende anche la valutazione degli effetti terapeutici e di eventuali effetti avversi del trattamento farmacologico o vaccinale delle MST e il controllo dell’aderenza alla terapia prescritta.
Chi ha subito violenza sessuale deve tenere un comportamento sessuale responsabile, che sostanzialmente si concretizza nell’uso corretto del profilattico, per evitare la diffusione di un’eventuale MST contratta ad altri, sino a quando non ha la sufficiente certezza di non aver contratto una MST o di averla curata. Mentre gli esiti psicologici di una violenza sessuale subita lasciano segni profondi rilevabili anche a distanza di tempo, la gestione del rischio MST può far acquisire nel tempo serenità se la valutazione è stata accurata ed il trattamento ben condotto ed efficace. Ogni MST ha un periodo d’incubazione in un range di tempo noto; se in tale periodo non si è manifestata la malattia e le indagini sono negative, la vittima può avere la consapevolezza e la certezza di non aver contratto una MST. La valutazione degli esiti a distanza dello stato infettivo consente, per il tempo trascorso dalla violenza, per la valutazione clinica e le indagini eseguite, di escludere il contagio di una MST oppure di constatare l’avvenuta guarigione di un’eventuale MST contratta.
Rischio di una gravidanza indesiderata
Il concepimento e la gravidanza costituiscono due dei “misteri” che da sempre hanno affascinato ed incantato l’uomo. Ancor oggi, l’uomo razionale del terzo millennio, pur conoscendo molto della fecondazione, dell’embriogenesi e del divenire del feto sino alla nascita, vede in tutto il processo un mistero, avviluppato da un’aura di magico e d’incredibilmente perfetto, che accompagna questo divenire della Natura. Il concepimento, nella sua accezione più bella e completa, è il risultato di un atto d’amore reciproco finalizzato alla procreazione.
Nella violenza sessuale manca l’atto d’amore, incompatibile con la violenza, e la consensuale volontà alla procreazione.
Anche se oggettivamente il nascituro non ha alcuna colpa ed è sempre l’esito di quel magico e perfetto divenire della Natura, un’eventuale gravidanza dopo violenza viene percepita dalla donna come testimonianza e quasi l’ “imposizione” del ricordo di un evento che la vittima vorrebbe cancellare. Nella donna fertile sottoposta a violenza coesistono sensazioni e sentimenti spesso contrastanti e che nel loro turbinio determinano, quasi sempre, il rifiuto di un’eventuale gravidanza.
Si stima che, dopo violenza sessuale, il rischio di gravidanza nelle donne in età fertile varia dall’1 al 5% e dipende dal periodo del ciclo mestruale in cui si trovava la donna, dall’uso di contraccezione, dalla fertilità, ecc. La possibilità di poter interrompere la gravidanza indesiderata è nella facoltà di una donna il cui concepimento è avvenuto in seguito a violenza ed è uno degli argomenti che il sanitario tratta con la vittima nel corso della prima visita dopo l’aggressione.
L’interruzione di gravidanza (aborto) è stata oggetto in Italia di intervento legislativo (Legge 22 maggio 1978, n. 194. Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza) e di un coinvolgimento sociale nel dibattito etico sulla sua liceità.
Di seguito, sarà esposto quanto oggi è possibile fare in Italia, nel rispetto delle norme di legge, per interrompere una gravidanza indesiderata dopo una violenza sessuale. Per quanto riguarda gli aspetti etici della problematica, il singolo individuo ha la facoltà di decidere in sintonia con le proprie credenze religiose, con la propria coscienza e con quei sentimenti e quelle sensazioni che alcuni accadimenti possono determinare.
Nelle donne in età fertile che hanno subito una violenza sessuale, il trattamento farmacologico per evitare la gravidanza prevede la somministrazione di un farmaco progestinico, registrato in Italia come contraccettivo d’emergenza e noto anche come “pillola del giorno dopo”. La probabilità di successo nel diminuire il rischio di una gravidanza indesiderata è massima (circa il 89%) se il trattamento è eseguito entro le prime 12 ore e in ogni caso entro i primi tre giorni dalla violenza. Un altro sistema contraccettivo d’emergenza è l’impianto provvisorio di un dispositivo intrauterino (Iud post-coitale). Tale impianto, normalmente usato come metodo contraccettivo per evitare l’impianto nell’utero di un eventuale ovulo fecondato, è meno accettato dalle donne, per la sua invasività, rispetto alla pillola del giorno dopo.
Se, nonostante questi tentativi, l’ovulo fecondato s’impianta lo stesso nell’utero e la gravidanza procede, la donna può richiedere, entro novanta giorni dall’inizio della gravidanza, l’interruzione volontaria di gravidanza secondo la legge 194/1978.
La violenza sessuale lascia un solco profondo nella percezione interiore del proprio essere e la vittima di una violenza, condividendo una gestione sanitaria appropriata della sua condizione, può evitare di rendere quel solco ancor più doloroso. [S.C.]