Odio social: perché dilaga, come gestirlo, chi odia di più

I leoni da tastiera stanno aumentando e alimentano un rituale collettivo che non tiene conto dei sentimenti altrui. Ecco cosa stimola la diffusione di questo fenomeno



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In molti si sono interrogati sulla gogna social che ha preceduto la tragedia di Giovanna Pedretti, la ristoratrice di Sant’Angelo Lodigiano trovata morta nel Lambro dopo le polemiche per una recensione su Tripadvisor al suo locale e conseguente replica. Ma fa discutere anche la storia di Matteo Mariotti, 20 anni di Parma, che ha subito l’amputazione di una gamba dopo l’aggressione di uno squalo in Australia e, successivamente, è finito in una polemica social per la raccolta fondi organizzata dai suoi amici.

Le fauci del web non risparmiano nessuno: lo sanno bene Chiara Ferragni, presa di mira da migliaia di follower inferociti dopo il caso Balocco, e un altro nutrito esercito di vip. Non a caso, l’ultima Mappa dell’Intolleranza stilata dalla Rete nazionale per il contrasto ai discorsi e ai fenomeni d’odio rivela che i tweet negativi stanno aumentando nel corso del tempo e prendono di mira soprattutto le donne (43,21%), seguite da persone con disabilità (33,95%), persone omosessuali (8,78%), migranti (7,33%), ebrei (6,58%) e islamici (0,15%).

A questo punto, ci domandiamo: quali sono le cause dell’odio social e perché sta dilagando?


Le cause dell’odio social

«Il fatto di non avere di fronte a sé l’interlocutore riduce l’inibizione sociale, per cui è più facile che rabbia e aggressività prendano il sopravvento», commenta il dottor Paolo Giovannelli, psichiatra e psicoterapeuta, direttore di ESC - Center for Internet Use Disorders, Milano. «Peraltro, l’empatia si costruisce vis-à-vis: è più facile comprendere gli stati d’animo e i vissuti altrui quando guardiamo le persone negli occhi, quando ne osserviamo le espressioni del viso, quando ne vediamo le reazioni di gioia o dolore».

Se l’altro è “fuori campo”, come accade sui social, non è facile mettersi nei suoi panni: il feedback arriva dilazionato, impoverito, per cui è difficile ricavare un contagio emotivo e la comunicazione si fa unidirezionale. «In altre parole, non si attivano quegli inibitori comportamentali di vicinanza che normalmente ci “frenano la lingua” per una questione di educazione oppure perché temiamo qualche conseguenza, come ricevere un pugno o subire una reazione violenta da parte di chi stiamo attaccando».

Chi odia di più

Nella maggior parte dei casi, chi si infiamma più facilmente sul web ha una personalità fortemente inibita nelle “vere” relazioni sociali. «Si tratta di persone che faticano a farsi valere ed esternare il loro punto di vista in famiglia, sul lavoro e con gli amici, per cui i social diventano uno strumento compensatorio per “riequilibrare” la loro incapacità relazionale nella vita di ogni giorno», descrive il dottor Giovannelli.

«In questa categoria rientrano i veri e propri haters, che sfogano la loro rabbia sul web in maniera ripetuta, compulsiva, sistematica, persecutoria e stalkerizzante: per loro essere “odiatori” della rete è quasi una professione, ma dietro nascondono personalità problematiche e sregolate».

Tutti gli altri, invece, seguono una sorta di corrente sociale, un fenomeno di massa che tende ad aumentare nel corso del tempo come un rituale collettivo: in questo caso, la persona esprime la propria rabbia social sporadicamente, magari in una chat di particolare interesse oppure perché fomentata dai commenti di altri utenti della rete.


Perché si odiano i famosi

Un capitolo a parte meritano gli “odiatori” degli influencer, come Chiara Ferragni: dopo lo scandalo pandoro, l’imprenditrice digitale ha deciso di bloccare i commenti sul suo profilo Instagram a causa degli eccessivi attacchi personali, che hanno finito per coinvolgere anche i figli, Leone e Vittoria.

«Gli influencer costruiscono un legame fortemente emotivo con il loro pubblico, basato su un concetto di vicinanza», considera lo psichiatra. «Illusoriamente, i follower si sentono parte della vita del loro idolo, quasi in un rapporto pseudo familiare e amicale: attraverso i video postati sui social, l’influencer mostra la sua casa, cosa mangia, come si veste, quanto si diverte con i figli, dove va in vacanza. Questo fa sì che quegli stessi follower si sentano delusi se il personaggio commette qualche errore: se ci pensiamo, un calciatore viene applaudito quando fa goal, fischiato quando sbaglia il rigore. In tutte le relazioni iper-emotive, le due facce della medaglia sono altrettanto intense: si può essere amati oppure odiati, ma questo non ha nulla a che fare con l’odio social che invade il web».

Si tratta di onde emotive negative, che un professionista della comunicazione sa certamente gestire, affrontare e superare.

Cosa fare di fronte all'odio social

Per non cadere nella rete degli odiatori della rete, la prima regola è: non scriviamo mai sotto la spinta delle emozioni, ma lasciamo trascorrere qualche minuto (meglio se qualche ora) per partecipare a una discussione social.

Qualora invece siamo noi le vittime di odio social, come gestire il problema? Bisogna abbandonare i social? «Prendere le distanze dal web per qualche tempo può essere utile», ammette il dottor Giovannelli. «Sul momento, invece, evitiamo di cercare un confronto con chi ci insulta: soprattutto quando i commenti sono molto pesanti, difficilmente quegli interlocutori sono disposti al dialogo. Al contrario, si nutrono delle nostre eventuali reazioni di fastidio, sofferenza o disagio. Qualsiasi tentativo di apertura rischia solamente di accendere ulteriori discussioni e protrarle nel tempo».

Rivalutiamo l’educazione

Un’ultima considerazione: c’è chi accusa le canzoni di rapper e trapper, che spesso contengono frasi sessiste o che incitano all’odio e alla violenza, soprattutto verso le donne. «In realtà, tutti gli ambiti della comunicazione sono contaminati da una cattiva educazione al rispetto verso i sentimenti altrui: in tv, nello sport, sui giornali, oltre che nella musica. Ma più che puntare il dito contro un singolo elemento, conviene diventare esempi buoni, noi per primi. Il mondo è un grande contenitore, fatto di tante cose, ma i fenomeni di massa riguardano tutti», conclude l’esperto.

«Operiamo nel nostro “orticello” e facciamo contro-cultura a casa, in ufficio, sul pullman, in coda al semaforo. Siamo tutti coinvolti in un processo sociale dove non sarà mai una singola canzone a creare il problema, perché conta la somma di tanti piccoli gesti, comportamenti e situazioni».


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