Come la pandemia ha cambiato le nostre case

Un nuovo utilizzo del tempo, un diverso modo di vivere lo spazio: la psicologa ci spiega come il Covid ha modificato il nostro stile abitativo e relazionale. E perché può essere una rivoluzione piena di opportunità



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La pandemia ha cambiato la nostra percezione di spazio. Ciò che era "immobile", la nostra casa, (un posto definito con il suo perimetro che si mantiene stabile nel tempo) ha dovuto trasformarsi in un ambiente versatile, aperto a più soluzioni, duttile nella forma e nelle funzioni. È cambiato il nostro modo di organizzare la giornata e di strutturare il tempo, e con esso la fruizione della superficie in cui ci muoviamo, il nostro modo di abitare. Abbiamo chiesto ad Alessandra Micalizzi, psicologa e docente di sociologia dei nuovi media al SAE Institute di Milano di spiegarci questa "rivoluzione".


Ci spiega meglio quali sono state le ripercussioni della pandemia sulle nostre abitazioni?

Parto dal verbo abitare, che ha in comune la radice con le parole latine habitus e habitat. Nel primo caso, habitus (significa comportamento, abitudine) racconta in modo simbolico e rappresentativo quello che siamo: narra di noi. Nel secondo caso, habitat, ha a che fare con l'ambiente con cui l'individuo si confronta, perché non si può estrapolare l’individuo dal contesto in cui vive. La pandemia ha stravolto entrambi questi concetti: sia lo spazio rappresentativo (ovvero come vogliamo mostrarci al mondo) sia quello comportamentale (il modo in cui entriamo in relazione con gli altri). Rinchiusi in casa con la famiglia, abbiamo dovuto ritagliarci (a fatica) un nuovo spazio privato, una zona di confine più intima dove i familiari non potevano avere accesso. E spesso non ci siamo riusciti, cosa che ha creato forti tensioni. La psicologia sociale ci dice che all'aumentare della densità abitativa si eleva anche la propensione all'aggressività nelle persone: è un fenomeno piuttosto chiaro quando per esempio ci troviamo su un mezzo pubblico all'ora di punta. Trovare un equilibrio è stato difficile.


E questo ha modificato il nostro modo di vivere dentro le mura domestiche?

Assolutamente. La pandemia ci ha spinto verso una polarizzazione: prima davamo tutto per scontato. C'è chi ha riscoperto la propria casa in modo nuovo, si è reinnamorato del luogo in cui vive e l'ha scelto per la seconda volta, in modo più consapevole, riuscendo a ritagliarsi una nicchia tutta per sé e a guardare con occhi nuovi la propria abitazione, ne ha riconfermato il valore. Al contrario, altri hanno capito che in quello spazio non ci riuscivano più a stare: non lo sentivano più come "rifugio". Nel momento in cui manca il "fuori", si può realizzare che anche il "dentro" non è più parte di noi. Soprattutto chi stava molte ore al giorno in ufficio e magari usava il proprio appartamento solo per dormire, ora percepisce troppa distanza tra il sé e la propria abitazione. Non si ritrova negli oggetti che si vedono ogni giorno, nell'arredamento che si è scelto, nei colori, nell’esposizione dei mobili.


Si è trasformata anche la nostra concezione di arredamento?

Certo. È stata una rivoluzione in termini di design. Per esempio hanno inventato delle "cellule" per ritagliare uno spazio diverso dentro la stessa stanza. Una sorta di cocoon, dei microambienti in grado di creare uno studio nel salotto magari attraverso tende, paraventi o librerie. Anche i mobili si sono dovuti adattare alle situazioni e alle relazioni: accoglienti per gli ospiti, formali per il lavoro, funzionali se si prestano a diventare multiuso, come un divano che diventa scrivania, e poi letto per un ospite. Inoltre c'è stata una rivalutazione degli spazi interstiziali come il terrazzo, il balcone, il giardino: sono diventati vivibili e importanti e si sono trasformati in punti di contatto con il mondo esterno. Abbiamo imparato a "guardare fuori stando dentro": è un modo diverso per entrare in relazione con gli altri, attivando uno scambio ma da una posizione "protetta".


Come può diventare un’opportunità questa rivoluzione dell’ambiente domestico?

Partirei da due binomi: uno è perdita/mancanza, l'altro desiderio/speranza, che sono consequenziali. Nel primo, quando perdiamo qualcosa (o qualcuno) si attiva un bisogno, che è uno scompenso alla situazione di equilibrio precedente. In questo caso, la mancanza della separazione tra pubblico/privato, la perdita dello spazio personale, della distanza e una diversa prossemica con gli altri. Proprio da qui nasce il secondo binomio: desiderio/speranza. La spinta al cambiamento data dalla mancanza diventa desiderio in un'ottica propositiva, una speranza di miglioramento. Ridisegno il mio "spazio vitale" in modo nuovo e creativo.


Siamo davvero così flessibili?

Lo siamo naturalmente. Quelle dinamiche adattive sono iscritte dentro di noi: ci permettono di adeguare le nostre esigenze al contesto e trovare nuove risorse. Antropologicamente ci siamo evoluti in funzione dei nostri bisogni e delle caratteristiche dell'ambiente esterno. La novità dello smartworking ci consente una riconquista del tempo che ci aiuta a ripensare lo spazio. Una nuova dimensione “spazio temporale” a misura dell’individuo, tagliato su ritmi che consentono un miglior equilibrio tra vita privata e lavorativa. Certamente lo smartworking ha ridisegnato un nuovo modo di vivere il lavoro, la famiglia e la casa. È in atto un cambiamento sostanziale e vedremo se con il passare del tempo diventerà strutturale, e coinvolgerà le organizzazioni sociali: i contratti di lavoro, le aziende e gli individui.



I colleghi in call ora "entrano" in casa

Abbiamo dovuto acquisire una nuova logica dello spazio e abbiamo imparato a utilizzarlo in modo diverso. L'ambiente è un insieme di variabili, uno spazio connotato culturalmente, caratterizzato da un contesto specifico, cioè il significato che gli attribuiamo. «Facciamo un esempio: se porto una persona in una stanza con dei banchi e una scrivania, mi dirà che quella è un’aula. Culturalmente siamo abituati a riconoscere a quello spazio una fruizione specifica in funzione della presenza di alcuni elementi caratterizzanti (i banchi, la scrivania). Se prendessi una persona di un'altra cultura e la facessi entrare nella stessa stanza, magari mi direbbe che è una chiesa, un luogo sacro in funzione delle sue conoscenze pregresse.

Lo stesso vale per la casa. Ogni ambiente, che aveva una funzione precisa, ha dovuto cambiare volto o meglio diventare flessibile. È cambiato tutto. I colleghi, anche se in via virtuale, sono piombati in casa. Non eravamo istruiti a quel tipo di accesso, all'idea dell’occhio dell’altro nella nostra intimità. Si è creata una sorta di mobilità spaziale: abbiamo dovuto introdurre l'elemento di versatilità dentro le pareti domestiche. E questo fenomeno è diventato tendenza anche nel design. La cucina, per esempio, da luogo conviviale, in certe ore del giorno è diventato un ambiente "da nascondere". Si coprono i fornelli che diventano un armadio, o chiusa da ante scorrevoli cambia faccia e funzione e si trasforma in ufficio», osserva l’esperta.



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