Perché siamo aggressivi e come imparare a discutere in modo costruttivo

Bianco o nero, guerra o pace, o tutto o niente. Mai come oggi abbiamo una visione del mondo dicotomica: o con noi o contro di noi. Ma si può imparare a discutere e confrontarsi in modo creativo e costruttivo. Un esperto di mediazione e conflitti ci insegna ad apprezzare la diversità delle idee per metterle al servizio di un obiettivo comune



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Litigare non è il peggiore dei mali: dobbiamo solo imparare a farlo senza trasformare il nostro interlocutore nel più acerrimo nemico. Sebastiano Zanolli, esperto di gestione del cambiamento e risoluzione dei conflitti, ci offre una cassetta degli attrezzi per riconsiderare la diversità di chi ci sta intorno come una ricchezza.


In che modo il Covid e ora la guerra stanno creando un pensiero unico, in cui gli schieramenti sono sempre più faziosi?

Diciamo che la pandemia e adesso la guerra filtrate attraverso i social media, macchine da business che confondiamo con la vita sociale, diventano un terreno fertile per polarizzare le posizioni. Un atteggiamento che rifugge ogni tipo di mediazione, diventando pensiero unico, senza possibilità di discussione. Gli algoritmi che regolano i social media su cui passiamo diverse ore al giorno decidono cosa vediamo e leggiamo, ci fanno sentire informati e competenti su parecchi temi ma in realtà hanno una grande capacità di manipolazione dell’opinione pubblica. Invece di spingerci a cercare un confronto sereno e aperto con il prossimo, ci isolano e ci rendono impermeabili alla comprensione degli altri.


Ma perché litighiamo?

L’innesco di ogni conflitto è la ricerca di un interesse personale, a livello individuale e professionale. Tendenzialmente litighiamo perché vogliamo affermare la posizione che crediamo più giusta e ragionevole: e, in tutto questo, il nostro ego e le nostre emozioni svolgono un ruolo importante su come andrà la discussione. La prima domanda da farsi quindi è: qual è lo scopo di questa discussione, il risultato o la mia voglia di avere ragione? Discutere è naturale, farlo in modo costruttivo richiede attenzione e apprendimento. Secondo Richard Walter Wrangham, antropologo e primatologo, gli esseri umani tendono naturalmente alla cooperazione: i suoi studi rivelano che i nostri antenati cacciatori-raccoglitori tendevano a isolare gli individui più violenti e aggressivi. Io sono convinto che il fattore chiave per la nascita e il successo della nostra specie dipenda dalla nostra capacità di collaborazione.


Come si impara a “litigare bene”?

Innanzitutto occorre allenarsi all’ascolto. Per riuscirci bisogna fare tabula rasa dei pregiudizi (bias) che ci portiamo sulle spalle. Ce ne sono di diversi tipi, tra i più comuni c’è il bias di assimilazione che fa sì che si cerchino argomenti per confermare le proprie opinioni senza ragionare sulle proposte altrui. O ancora, il bias di fazione: l’unico obiettivo è essere valutati positivamente dal proprio gruppo senza prestare attenzione alle argomentazioni di chi abbiamo davanti, oppure il bias dell’ancoraggio: è la tendenza ad affidarsi in modo totale alla prima informazione e rimanervi agganciati a qualunque costo. Sono solo alcuni esempi di come un certo atteggiamento ci impedisce di porci di fronte all’interlocutore con attenzione e rispetto. È necessario invece prendere le distanze dal proprio stato emotivo del momento, aprirsi a un ascolto autentico e curioso e mettere sul piatto le finalità e gli interessi condivisi che possono portare a una mediazione.


Mentre si discute è meglio gettarsi nella mischia o stare in silenzio?

Tacere non è mai un atteggiamento produttivo. Eludere un conflitto non serve ad affrontare il problema in questione ma solo a fuggire. È comprensibile perché discutere costa fatica: invece di stare nella propria zona di comfort dove tutti la pensano come noi, mettersi in discussione è un’operazione impegnativa, soprattutto se abbiamo di fronte una persona aggressiva o particolarmente assertiva. È importante comprendere che famiglia, azienda, società sono ambienti che presentano regole e obiettivi non del tutto sovrapponibili e che necessitano di modalità di comportamento diverse quanto a litigi. Ogni volta che discutiamo, va in scena ciò che potremmo definire uno scontro tra titani: due cervelli composti da 12-14 miliardi di neuroni, interconnessi e caratterizzati da fattori genetici, ambientali e culturali devono trovare un terreno comune per capirsi. Se iniziamo a prendere consapevolezza di quanto siamo complessi e diversi proprio in quanto esseri umani, possiamo immaginare il conflitto come un percorso costellato da tentativi, fallimenti, riavvicinamenti, mediazioni che ha però sempre un solo fine: capirsi.


Quindi discutere con il prossimo è naturale, capirsi invece è un impegno quotidiano?

Esattamente. Come dice Daniele Novara, pedagogista e fondatore del centro psicopedagogico per la gestione dei conflitti, in ogni casa dovremmo appendere un manifesto che recita: “Finché c’è conflitto, c’è speranza”. La cooperazione di caratteri diversi implica una visione più ampia della realtà e permette l’individuazione di soluzioni più creative. Per farlo occorre cercare e volere il compromesso, con costanza e consapevolezza di sé e dell’altro.


Le donne fanno più fatica a imporsi in una discussione?

Certo, è molto diffuso anche il cosiddetto bropriating. Si verifica quando un uomo si appropria dell’idea di una collega e se ne prende tutto il merito. Esprimere le proprie opinioni in modo assertivo non è solo utile ma necessario, tenendo sempre presente che il fine comune è la comprensione reciproca e il raggiungimento di una visione comune.


Attenzione a usare le parole giuste

«La guerra è violenza, il litigio invece è uno scontro che può portare a una soluzione condivisa», osserva Sebastiano Zanolli. «Usiamo spesso i termini in maniera confusa ed equivalente. Dovremmo fare maggiormente attenzione alla semantica delle parole perché possono far precipitare una situazione. Imparare a stare nel conflitto non porta necessariamente a un esito aggressivo, anzi. Significa invece riconoscere la differenza e la distanza altrui per preservare la relazione».



Così negozia il Federal Bureau of Investigation

Il Behavioral Change Starway Model (modello della scala del cambiamento comportamentale) è utilizzato dall’FBI nella negoziazione durante situazioni complesse. Ci serve per capire come mediare con la controparte.

1. Ascolto attivo. Il primo step incoraggia la conversazione per stabilire un dialogo con l’interlocutore. Lo scopo è comprendere le emozioni della controparte per capire chi si ha di fronte.

2. Empatia. Imparare a mettersi nei panni degli altri è il modo migliore per affrontare una discussione: il tono di voce deve essere autentico e trasmettere interesse per la controparte.

3. Rapporto. L’ascolto partecipe tende a creare un clima di fiducia modo che si riesca a trovare una riformulazione positiva della situazione e un terreno comune in cui il negoziatore permetterà all’altra parte di poter cambiare opinione salvando la faccia (e l’orgoglio).

4. Influenza. Una volta che si è instaurato un rapporto di fiducia, il “negoziatore" è in grado di dare suggerimenti a chi si trova di fronte, esplorando le alternative proposte dalla controparte.

5. Cambiamento. Il passaggio finale del BCSM dipende da quanto efficacemente il negoziatore affrontato gli altri passaggi. Se ha stabilito una relazione solida, potrà proporre delle soluzioni al conflitto che porteranno al cambiamento comportamentale desiderato.


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