Guida al made in Italy: il significato di marchi e certificazioni

Marchi e certificazioni a volte indicano la provenienza nazionale del prodotto, altre la lavorazione nel nostro Paese. Che può essere ugualmente sinonimo di eccellenza. Un esempio fra tanti? Il “nostro” caffè



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“Io mangio italiano” è stato qualche tempo fa il claim lanciato da Coldiretti per sostenere il nostro settore agroalimentare in tempi di pandemia. Ma non c’è dubbio che in tutto il mondo il made in Italy in fatto di cibo sia sinonimo di qualità, varietà ed eccellenza. Basti pensare che il nostro Paese vanta il numero maggiore di certificazioni DOP e IGP di tutta l’Unione Europea: sono circa 800, dimostrazione del forte legame che lega le nostre specialità al territorio di origine. Ed proprio dal sistema delle certificazioni che occorre partire per capire cosa significhi davvero “mangiare italiano”. Perché bisogna fare delle distinzioni.


STG: le specialità tradizionali

Sicuramente hai già sentito parlare di DOP e IGP ma conosci la certificazione STG (Specialità Tradizionale Garantita) rilasciata dall’Unione Europea? Per quanto riguarda l’Italia sono la pizza, la mozzarella e da poco anche la pasta all’Amatriciana e il Vincisgrassi alla maceratese. Com’è facilmente intuibile, hanno una loro caratterizzazione tipica italiana, ma possono essere preparati in qualsiasi zona geografica, purché mantengano determinate caratteristiche stabilite dal disciplinare (per esempio, per la pizza, l’altezza del cornicione).

Insomma, la definizione “specialità tradizionale” garantisce solo la ricetta tipica o il metodo di produzione tradizionale (ovvero esistente da almeno 30 anni) di un determinato prodotto, ma senza un vincolo di appartenenza territoriale. Lo scopo è quello di proteggere il prodotto da contraffazioni.


I PAT: la salvaguardia di antiche produzioni

Esistono poi i PAT, i Prodotti Agroalimentari Territoriali, nati dall’esigenza di trovare norme igieniche condivise all’interno dell’Unione Europea. I problemi in materia erano i più diversi e andavano dall’utilizzo di strumenti in legno, quali paioli e mestoli, ritenuti non in regola perché costituiti da materiale non del tutto sanificabile, alla non idoneità di certi locali di produzione.

Intere categorie di prodotti quali i formaggi di fossa o altri a pasta filata, o certi salumi d’alta montagna rischiavano di scomparire. Per poter consentire la sopravvivenza di questi prodotti tradizionali, esistenti da almeno 25 anni e che quindi non avevano mai dimostrato di creare problemi di salute in tanti anni, sono stati istituiti i PAT, con i necessari provvedimenti di deroga alle rigide prescrizioni comunitarie. I PAT in Italia sono numerosissimi: solo in Toscana, per fare un esempio, sono 464.


La provenienza nelle etichette

Al di là delle varie certificazioni, vi sono poi gli alimenti per cui è d’obbligo indicare la provenienza, come frutta e verdura. Per altri generi alimentari le cose si diversificano. Per la precisione, per la carne bovina fresca o surgelata la legge prevede che venga indicato il Paese di nascita, di allevamento e di macellazione. Ma per la carne suina, ovina, caprina e i volatili come pollo e tacchino non è necessario indicare il Paese di nascita ma solo quello di allevamento e di macellazione.

Per il latte fresco va riportata la zona di mungitura, per i derivati come i latticini, anche il Paese di trasformazione e confezionamento. Per l’olio le regole sono precise: occorre indicare il Paese di origine delle olive e quello di produzione. La pasta deve riportate sull’etichetta la provenienza della semola. Ormai al supermercato si vedono molte marche che indicano “grano 100% italiano”, ma ce ne sono molte altre che usano semola estera per cui sull’etichetta si può trovare la dicitura “origine Ue” o “extra Ue”.

Tutto chiaro allora? Mica tanto: perché quando un prodotto non è monoingrediente, ad esempio per le carni suine trasformate, oppure nel caso di lavorati che utilizzano latte, pasta di grano duro, riso, pomodoro, non vige ancora l’obbligo di indicare la provenienza dell’ingrediente primario. Tale obbligo è stato prorogato in Italia al 23 dicembre 2023. Si tratta di assicurare maggiore trasparenza per i consumatori, in attesa delle decisioni dell’Unione Europea in materia.


Made in Italy a tutti i costi sì o no?

Ma viene anche da chiedersi se il made in Italy vada ricercato sempre e comunque, dalla materia prima al prodotto finito. «Per rispondere a questa domanda partiamo da una constatazione: per certi prodotti l’Italia è dipendente dai mercati esteri. Succede sia per il grano tenero sia per quello duro e praticamente per tutta la soia, che tra l’altro è quasi interamente OGM», osserva il tecnologo alimentare Giorgio Donegani. Lo stesso dicasi per i legumi, per lo zucchero e per molti altri prodotti: non è facile portare in tavola solo made in Italy 100%. Certo, resta il fatto che i grani antichi coltivati in Italia (come il Senatore varietà Cappelli), così come i legumi tipici delle nostre regioni sono garanzia di grande qualità.

«L’olio extravergine di oliva italiano, poi, ha caratteristiche difficilmente replicabili. Abbiamo una biodiversità incredibile, che ci consente di coltivare 500 varietà di olive», spiega Donegani. «Di conseguenza i nostri oli, dal Nord fino al Sud, acquistano caratteristiche diverse a differenza di quelli importati che un po’ si assomigliano tutti. In questo caso ha senso puntare alle produzioni interamente italiane. Altro discorso per la carne: ne importiamo il 10-30% dall’estero ma questo non è necessariamente un dato negativo: la carne irlandese è ottima, gli animali crescono in allevamenti estensivi, non vengono alimentati a cereali perché dispongono di grandi distese di erba», osserva ancora l’esperto.


La lavorazione, il nostro vero patrimonio

«ll nostro patrimonio non sono solo le materie prime ma anche e soprattutto la lavorazione, il “saper fare”, frutto spesso di tradizioni secolari. Ci sono specificità, come la stessa pasta (che sia o no di grano nostrano), che è impossibile trovare altrove. Il cioccolato prodotto in Italia è uno dei migliori al mondo, grazie alla nostra eccellente arte cioccolatiera eppure le materie prime non sono certamente nostrane. Idem per il caffè, che non a caso è famoso in tutto il mondo. Italianità, insomma, anche per quanto riguarda il cibo, è sinonimo di tradizione e innovazione, genio creativo e sapiente artigianalità», conclude il nostro esperto.


Differenze tra DOP E IGP

«Se un prodotto è DOP (Denominazione d’Origine Protetta) è al 100% di origine italiana, dalla materia prima al prodotto finito» chiarisce Giorgio Donegani, tecnologo alimentare. «Un esempio è il Grana Padano DOP: le vacche vengono allevate nelle province che fanno parte di una determinata zona geografica, che in questo caso comprende Emilia-Romagna, Lombardia, Piemonte, Veneto e la provincia di Trento così come la lavorazione del latte, la stagionatura e il confezionamento avviene all’interno di quest’area.

Per i prodotti IGP non è così. La bresaola della Valtellina, ad esempio, nata per soddisfare le esigenze locali, nel tempo è diventata talmente popolare che le carni provenienti da quel territorio non sono state più sufficienti alla produzione: ecco perché si usano tagli pregiati importati in particolare dal Brasile e dall’Argentina. Quindi il marchio IGP sta a indicare che almeno una delle fasi, in questo caso la lavorazione, è di provenienza italiana.



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