I NUMERI VERDI DELLE REGIONI ITALIANE PER CHIEDERE INFORMAZIONI
Rispondono alle nostre domande il dottor Luigi Riccioni, anestesista rianimazione e terapia intensiva Siaarti, il professor Paolo Ascierto, oncologo presso l'Istituto dei Tumori di Napoli, il dottor Franco Marchetti, medico di base e allergologo a Milano, la dottoressa Roberta Borri, medico responsabile della Rsa La tua Casa a Cigognola, Pavia.
Quando avremo finalmente il vaccino per tutti?
«Nonostante la gara contro il tempo che vede impegnati ricercatori di tutto il mondo, compresi quelli italiani, occorrono almeno 18 mesi», spiega il professor Paolo Ascierto, uno dei ricercatori all’avanguardia nella sperimentazione dei farmaci per combattere il Coronavirus. «Lo confermano i dati dell’Oms, ma preciso che i 18 mesi vanno calcolati dall’inizio della crisi in Cina, cioè dal dicembre 2019». Gli studiosi di tutto il mondo sono molto vicini ai primi test sull’uomo (si parla delle prossime settimane: Israeliani, Cinesi e Americani in testa), il problema è superare le maglie delle verifiche di sicurezza necessarie prima di poterlo distribuire in milioni di dosi. I ricercatori più ottimisti parlano di 12 mesi, il record stabilito con l’autorizzazione del vaccino per Ebola, avvenuta il novembre scorso.
È vero che ora c’è un farmaco sperimentale che funziona bene?
«Sì. Stiamo sperimentando il tocilizumab, un farmaco biologico (è un anticorpo monoclonale, utilizzato per curare l’artrite reumatoide e altre malattie) su alcuni pazienti più gravi, cioè quelli intubati perché colpiti dalla polmonite interstiziale bilaterale, la conseguenza più letale del virus, quella che porta i pazienti in rianimazione», racconta il professor Ascierto, il primo italiano a condurre la sperimentazione insieme ai colleghi della University of Science and Technology of China. «I cinesi lo hanno utilizzato su 21 pazienti gravi che hanno avuto netti miglioramenti in 24/48 ore. Il nostro primo paziente italiano, intubato e in rianimazione in condizioni molto critiche, ha ottenuto miglioramenti respiratori tali da consentirne l’estubazione. Siamo davvero ottimisti». ll tocilizumab non “attacca” direttamente il virus, ma agisce sui meccanismi della polmonite causata dal microrganismo, e quindi sembra essere efficace proprio nei pazienti più gravi o che più spesso non sopravvivono. «A livello del polmone ci sono delle cellule del sistema immunitario», spiega Ascierto. «Nel momento in cui arriva il virus si attivano, creando un'infiammazione importante. Alla base di questo meccanismo c’è l’interleuchina 6, un mediatore infiammatorio che viene ridotto dal farmaco al punto da “spegnere l’incendio” che provoca negli organi respiratori».
Quali altri farmaci risultano efficaci in questi casi?
«Stiamo utilizzando delle molecole che sembrano aver funzionato con altri agenti infettivi come l’Hiv ed Ebola», spiega il dottor Luigi Riccioni, anestesista rianimatore. «Servono a rallentare la propagazione dell’infezione e ad aiutare il sistema immunitario del paziente a reagire. Si stanno provando persino degli antimalarici: questo virus è davvero nuovo e sconosciuto per molti versi». «Chi sta a casa in quarantena può usare i farmaci sintomatici che di solito si utilizzano per l’influenza tradizionale», spiega Franco Marchetti, medico di famiglia. «Paracetamolo per la febbre e i dolori (di solito fa passare anche la tosse), antibiotico solo in caso il medico lo ritenga necessario vagliando il quadro complessivo del paziente, riposo e mascherina per tutelare gli altri in quarantena».
Si parla tanto di vitamina C: è utile per proteggersi?
«Se ne parla perché ne è stato suggerito l’uso a dosi importanti per via endovenosa, sempre per ritardare l’espansione del virus, ma non ci sono prove dell’efficacia», precisa il dottor Riccioni. «In effetti ha dimostrato di avere una certa efficacia nel prevenire l’influenza tradizionale, ma non ci sono dati sui suoi effetti nei confronti del Coronavirus», aggiunge Ascierto. «Negli anziani, che spesso non hanno una dieta equilibrata al punto da garantire la giusta dose di questa vitamina, se non usano farmaci anticoagulanti (può interferire con la loro efficacia), consiglio di assumerne 2 grammi al giorno lontano dai pasti», dice Roberta Borri, geriatra.
Allergie e influenza possono complicare la diagnosi?
«Sì, soprattutto l’influenza tradizionale, che è ancora presente anche se inizia a calare, confonde e impaurisce le persone», racconta il dottor Marchetti. «Il Coronavirus ha questi sintomi tipici: febbre superiore ai 38 gradi, tosse secca, stanchezza, problemi respiratori. A volte mal di testa e diarrea, ma non sono i sintomi più frequenti. Ulteriore confusione possono dare le prime allergie, visto che il caldo ha fatto fiorire precocemente alcune piante proprio in piena pandemia, ma in realtà naso che gocciola, prurito e congiuntivite per noi medici sono chiari segni di reazione allergica classica. Oggi dobbiamo fare i conti con la paura che tutto possa essere “il virus”. Ma i sintomi sono in genere chiari, anche perché la classica influenza passa e migliora nel giro di 4-5 giorni. Esistono poi pazienti del tutto asintomatici, soprattutto sotto i 30 anni: sono i cosiddetti “portatori sani”».
Dal contagio in quanti giorni ci si ammala?
«Entro due settimane dall’esposizione, ecco perché la quarantena deve durare 14 giorni. La maggior parte dei pazienti con forma sintomatica però sviluppa i primi sintomi dalla quarta alla sesta giornata dal contatto con la persona positiva al Covid-19», spiega Marchetti. «Negli anziani vedo casi con un esordio che avviene soprattutto fra il settimo e il decimo giorno», aggiunge la dottoressa Borri. «Si parla anche di sviluppo della malattia a tre settimane di distanza dal contatto a rischio, ma sono casi atipici e minoritari».
Perché certe persone guariscono più facilmente?
«Dipende dal sistema immunitario ma anche dalla cosiddetta riserva funzionale », spiega Borri. «La riserva funzionale esprime quanto un organismo è ancora in grado di dare a livello di energia, una “forza” che dimunisce con l’età. È massima nei bambini fino a scendere al 10% oltre i 90 annni. La riserva funzionale ci difende dagli stress e dalle malattie: possiamo quindi immaginarci l’impatto differente di un virus su un giovane e su un anziano. Per fortuna questa regola vede eccezioni, con ottime riserve funzionali anche in tarda età: lo dimostra il caso della nonna di 81 anni appena guarita dal Coronavirus e il paziente centenario cinese che è uscito dall’ospedale dichiarando che, guarito, doveva badare alla moglie anziana».
È vero che il virus con uno starnuto può arrivare a 5 metri?
Quest’ultimo dubbio nasce da uno studio cinese appena pubblicato. I ricercatori hanno indicato come distanza di sicurezza 4-5 metri, basandosi solo sull'osservazione da una telecamera a circuito posta su un autobus, dove alcuni passeggeri sono poi risultati contagiati da Covid-19. «Sono d’accordo con il professor Roberto Burioni, il primo a commentare lo studio definendolo debole per il tipo di osservazione (una telecamera) e altri elementi, come il fatto che chi era più vicino al passeggero postivo non si è ammalato e non si sa se gli altri infettati erano già ammalati», commenta Marchetti. «Il veicolo principale del virus rimangono le goccioline espulse con la tosse e gli starnuti con un range di un metro». L’autorevole rivista Jama ha poi misurato i campioni d’aria che circonda una persona positiva con sintomi importanti, che sono risultati negativi. Dunque è improbabile che il virus “aleggi” nell’aria, contaminandola per metri.
Gli under 20 sono quasi tutti immuni dal virus?
Secondo gli ultimi dati dell’Istituto Superiore di Sanità sulla totalità dei positivi al tampone l’1,2% ha meno di 19 anni e il 24% è nella fascia 19-50, soprattutto uomini. «Bambini e adolescenti sono per la maggior parte asintomatici anche se positivi al virus, per questo le visite ai nonni, i soggetti più deboli e a rischio, vanno minimizzate, sostituite con le comode e semplici videochat (che non richiedono email e registrazione) e comunque da evitare assolutamente baci e abbracci», raccomanda la dottoressa Roberta Borri. «I giovani non sono invulnerabili», avverte il dottor Luigi Riccioni. «Sono soggetti meno a rischio ma non sono immuni da eventuali evoluzioni gravi. Purtroppo, infatti, abbiamo casi di trentenni in rianimazione intensiva». «Anche gli under 40 hanno iniziato a chiamare il medico di base perché hanno paura della tosse, del mal di gola o della raucedine, persone che fino a ieri facevano una vita sociale quasi normale. Credo che anche i giovani inizino a preoccuparsi e rendersi conto della reale situazione», racconta Marchetti.
Com’è la situazione negli ambulatori del medico di base?
«All’inizio della pandemia l’ambulatorio era gremito di persone», dice il dottor Marchetti, che gestisce il massimo degli assistiti per un ambulatorio di una grande città come Milano, 1700 persone. «Ora, dato che prima di recarsi dal medico occorre telefonare e non c’è più libero accesso, in sala d’attesa si riescono a rispettare le distanze di sicurezza. Ricevo decine di telefonate al giorno, quasi tutte sul Coronavirus. Il protocollo prevede che io faccia una serie di domande (se e quando si è venuti a contatto con un positivo accertato, se si ha avuto, esempio febbre o tosse); quindi decido se controllare l’evolversi della situazione a casa con i farmaci (e le reazioni a essi) con un monitoraggio telefonico, se andare a visitare i pazienti di persona o se chiamare il 112, che è il servizio preposto al trasporto in Pronto Soccorso dove può essere eseguito il tampone»
Qual è la migliore protezione per i più anziani?
«Devono lavorare sulla prevenzione a tutti i costi», spiega Borri. «Per questo più degli altri devono minimizzare i contatti. Ecco perché i servizi sociali stanno intensificando in diverse Regioni la consegna a casa di farmaci e spesa anche agli anziani autosufficienti e sani. Un'altra cosa importante è sensibilizzare le badanti: inutile non far uscire l’assistito di una certa età se poi chi si prende cura di lui fa una vita sociale con contatti plurimi con altre persone».
Perché in certi casi occorre intubare i pazienti?
«Per consentire la respirazione che viene compromessa dalla polmonite grave, quella interstiziale bilaterale tipica del Coronavirus», spiega l’anestesista. «La ventilazione forzata aiuta a espandere la zona dei polmoni dove non passa l’aria fino a che il danno polmonare non migliora a livello tale che il paziente torni a respirare autonomamente. Nei casi più gravi dobbiamo mettere la persona per qualche ora a pancia in giù, perché ci sono liquidi trattenuti nelle parti basse del polmone che impediscono una corretta ventilazione. La posizione prona permette di far passare l’aria in quelle aree».
Perché serve il coma farmacologico?
«In realtà si tratta di una sedazione profonda, come un’anestesia totale che non dà problemi cerebrali (anzi, mette a riposo il cervello) e consente al ventilatore di garantire una respirazione ottimale al paziente, senza le interferenze della respirazione spontanea e dei movimenti, oltre a non far sentire dolore alla persona», spiega il dottor Riccioni. «Il trattamento intensivo dura in genere almeno tre settimane, ma varia da paziente a paziente».
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Articolo pubblicato sul n. 14 di Starbene di Starbene, in edicola dal 17 marzo