DIABETICI NON SI NASCE, SI DIVENTA
«Il diabete di tipo 1, definito “giovanile” perché si manifesta soprattutto tra i 2 e i 10-12 anni di età (70% dei casi), non è una malattia congenita», spiega il professor Franco Cerutti, direttore responsabile del reparto di Endocrinologia e Diabetologia dell'Ospedale Infantile Regina Margherita di Torino. «Il 30% circa dei bambini nasce con una generica predisposizione genetica. Ma sono poi fattori ambientali non ancora individuati con chiarezza (infezioni virali, disturbi dell'alimentazione, sostanze inquinanti, squilibrio della flora batterica intestinale, carenza di vitamina D) a mandare in tilt le difese dell'organismo, scatenando i “soldati” del sistema immunitario contro le cellule che producono l'insulina (l'ormone incaricato di mantenere costante il livello degli zuccheri nel sangue)».
IL DANNO C'È MA NON SI VEDE
«Fino a quando la distruzione interessa il 40-50% del pancreas la malattia non dà disturbi e quindi non può essere scoperta», spiega l'esperto. «Ma se il danno aumenta, il corpo non riesce più a compensare l'impennata della glicemia. E cominciano a comparire i primi sintomi ai quali bisogna prestare attenzione, perché il rischio che il bambino finisca in ospedale, in condizioni anche gravi, è molto alto».
LA PREVENZIONE PARTE DALLA CONOSCENZA
Per aiutare i genitori (come gli insegnanti e gli altri adulti che vivono a contatto con il piccolo) a capire subito se c'è qualcosa che non va, la SIEDP (Società Italiana di Endocrinologia e diabetologia pediatrica) ha indetto una campagna informativa che continuerà fino al 31 dicembre 2016. Testimonial: la coppia di comici Ale & Franz, che ha girato un video per Pubblicità Progresso. 10.000 locandine saranno poi distribuite negli studi dei pediatri di base e nelle scuole per sensibilizzare il maggior numero di persone possibile nei confronti di una malattia, il diabete, che ogni anno colpisce circa 1200-1300 bambini da 0 a 14 anni. I bambini sono attualmente 17-18.000 in tutta Italia (l'85-90% di loro è seguito nei centri di diabetologia pediatrica, gli altri in strutture dedicate agli adulti).
I CAMPANELLI D'ALLARME
«Quando la poca insulina prodotta dal pancreas non riesce a tenere sotto controllo la glicemia, il piccolo inizia a bere di più. In questo modo cerca di diluire lo zucchero presente nel sangue eliminandolo attraverso i reni», spiega il diabetologo. «La produzione di pipì di conseguenza aumenta, e può capitare che durante il sonno non venga trattenuta». Ma c'è anche un altro sintomo che dovrebbe mettere in guardia. Pur mangiando tanto, il piccolo dimagrisce. «Dipende sempre dalla scarsa insulina in circolazione», precisa il professor Cerutti. «È questo ormone ad avere il compito di portare gli zuccheri all'interno delle cellule, ma se manca, il “nutrimento” non arriva dove dovrebbe (perché, come abbiamo detto, viene espulso con le urine) e l'organismo inizia a bruciare i grassi. Così il bambino dimagrisce. E non è l'unico problema. L'utilizzo come fonte di energia di un “carburante” diverso comporta la formazione di sostanze di scarto, definite corpi chetonici, che acidificano il sangue». È un processo simile a quello che si verifica quando il bambino ha la febbre alta e mangia poco o nulla: gli viene l'acetone, perché le sue cellule rimangono a digiuno. Basta però che riprenda ad introdurre un po' di cibo perché la situazione torni normale. Cosa che purtroppo non avviene nel caso del diabete. L'acidosi non è dovuta alla mancata assunzione di zuccheri, ma al fatto che pur venendo consumati regolarmentre (spesso, anzi, il bambino incomincia a mangiare più del solito) non riescono più a entrare nelle cellule. Arrivati a questo punto la situazione può solo peggiorare, e anche piuttosto velocemente», mette in guardia il presidente della SIEDP.
DALLA SETE ECCESSIVA AL COMA
Il primo sintomo del diabete giovanile, come abbiamo visto, è l'aumento della sete. Seguono: la maggior produzione di urine, la pipì a letto, il calo di peso. «Se arrivati a questo punto la malattia non viene riconosciuta tempestivamente, la progressiva acidosi del sangue causata dai corpi chetonici (e proprio per questo definita chetoacidosi) provoca disturbi via via più gravi: nausea, vomito, sonnolenza, una parziale perdita di coscienza fino al coma», afferma il diabetologo. Sono tanti, purtroppo, i bambini che arrivano in ospedale in condizioni serie: di quelli in età prescolare il 72% (di cui il 16,6% a rischio), di quelli dopo i 6 anni il 38,5% (il 10% con sintomi gravi)
IL DIABETE NON SI PUÒ PREVENIRE
Il problema del diabete nei bambini è che non si può fare prevenzione. «Manca l'identificazione precisa delle cause che lo scatenano. Non abbiamo gli strumenti per individuare chi ha maggiori possibilità di ammalarsi», afferma il professor Cerutti. «Del 30% di piccoli che nascono con la predisposizione genetica, come detto all'inizio, solo pochissimi sviluppano la malattia. E non è detto che siano figli o nipoti di adulti diabetici. Dei bambini che seguiamo nel nostro centro di Torino solo il 5-6% ha un familiare di primo grado con lo stesso problema. Ecco perché l'informazione è, al momento, l'unica arma che abbiamo a disposizione non per evitare che il sistema immunitario vada in tilt, aggredendo le cellule del pancreas, ma almeno per capire immediatamente che qualcosa di strano sta accadendo e intervenire prima che la carenza di insulina causi danni gravi».
DAL PEDIATRA AI PRIMI SINTOMI
«Quando si nota che il bambino cambia le sue abitudini (beve di più e fa tanta pipì o mangia molto e dimagrisce) il consiglio è di portarlo subito dal medico», insiste il presidente della SIEDP. «Molti pediatri sono in grado (pungendo semplicemente il dito al bambino) di misurare la glicemia anche nel loro studio. Se poi dall’esame risultano valori intorno ai 101-126 mg/dl (la quantità di zucchero presente in 1 decilitro di sangue) a digiuno, è indispensabile approfondire i controlli. Sarà quindi lo specialista a indirizzare la famiglia al Centro diabetologico più vicino. Comunque: meglio rivolgersi al pediatra per nulla che correre il rischio di non riconoscere una malattia silenziosa che, se non individuata per tempo, può determinare chetoacidosi grave che può arrivare sino al coma e alla complicanza più terribile, l'edema cerebrale (0,15-0,30% dei casi)».
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