di Barbara Gabbrielli
Fabiano Antoniani, in arte dj Fabo, 39 anni, cieco e tetraplegico dopo un incidente avvenuto nel 2014, ha provato ad aggrapparsi alla vita. Si è sottoposto a cure e terapie anche sperimentali, che non gli hanno restituito neppure una briciola di quell’esistenza che amava tanto.
«Vorrei poter scegliere di morire senza soffrire, ma ho scoperto che ho bisogno d’aiuto», dice nel videomessaggio indirizzato al Presidente della Repubblica affinché intervenga per sbloccare la legge sull’eutanasia, ferma in Parlamento dal 2013. Le parole sono sue, ma la voce è della compagna Valeria. Perché Fabo fatica a parlare, non può muoversi, è intrappolato in quella che lui definisce «una notte senza fine».
A 10 anni dalla scomparsa di Piergiorgio Welby, la battaglia per l’autodeterminazione del malato continua. Perché in Italia il dibattito sul fine vita non riesce a trasformarsi in regole chiare e condivise. Nel nostro Paese l’eutanasia attiva, cioè l’intervento di un medico che con il consenso del malato pone fine alle sue sofferenze, è un reato punito dal codice penale come omicidio del consenziente o come istigazione al suicidio.
Mentre l’eutanasia passiva, intesa come interruzione delle cure, trova un riscontro nella Costituzione italiana, secondo la quale “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.
C’è un progetto per regolare questa ateria, come ricorda Fabo nel suo videomessaggio, depositato nel 2013 dal Partito Radicale e dall’Associazione Luca Coscioni, che parallelamente ha dato il via alla campagna “Eutanasia legale”.
Oltre 100mila italiani hanno firmato la petizione per sostenerla, ma l’approvazione della proposta legge sembra essere ancora molto lontana: a marzo dello scorso anno, la discussione si è arenata dopo solo una seduta delle commissioni parlamentari competenti.
SOVRANITÀ DELL’INDIVIDUO? NON QUI
«In Italia il confronto su questi temi incute paura: la nostra società fatica a capire e rispettare un principio che altrove, come nel mondo anglosassone, è fondamentale: la sovranità dell’individuo, cioè la libertà di decidere e di essere responsabile delle proprie scelte.
Compresa quella di accettare o meno una condizione di malattia, di dolore e di stanchezza», spiega il filosofo Giulio Giorello, autore con Umberto Veronesi del libro La libertà della vita (Raffaello Cortina Editore, 9 €).
«Per la Chiesa, la vita non appartiene al singolo ma a Dio e non si può toccare. I politici, da parte loro, hanno sempre dato più peso agli interessi di casta e a consorterie di vario genere che alle esigenze dell’individuo». Così la discussione è rimasta al palo.
In questi giorni, però, qualcosa potrebbe muoversi. Il Parlamento ha iniziato a esaminare il testo di legge sulle “disposizioni anticipate di trattamento”, il cosiddetto testamento biologico, documento nel quale una persona dichiara preventivamente quali trattamenti medici vuole ricevere o rifiutare in caso di malattia terminale.
«Servano leggi che non aprano la strada a molteplici interpretazioni e ricorsi», aggiunge il filosofo. «Ma per farle occorre andare verso il rispetto dell’individuo e delle sue scelte, anche se per qualcuno possono essere sbagliate.
Occorre capire che siamo uguali nei diritti ma diversi nei desideri: c’è chi vuole vivere a tutti i costi e chi invece non ce la fa a sopportare un’esistenza che è diventata un inferno».
VOLER MORIRE PER AMORE DELLA VITA
Intanto il vuoto legislativo si è riempito di eventi: gesti disperati (i suicidi di Franco Lucentini, Mario Monicelli, Carlo Lizzani), battaglie estenuanti (come nel caso di Eluana Englaro), processi durati anni (l’anestesista che staccò il respiratore a Welby, accusato di omicidio e poi prosciolto), viaggi verso la dolce morte fuori dai confini nazionali (un esempio, il politico Lucio Magri).
L’eutanasia è stata legalizzata in Olanda, Belgio e Lussemburgo. In Francia è stata approvata una legge contro l’accanimento terapeutico. Il suicidio assistito è stato accettato in Spagna, Germania e Svizzera.
Ed è quest’ultima la meta di molti italiani che desiderano compiere questa scelta estrema, aiutati da associazioni come Exit, che conta 3.800 associati e offre solo informazioni, o come l’associazione Luca Coscioni, che dal 2015 ha dato supporto a circa 250 persone.
«Scegliere di morire è un momento drammatico e spesso si arriva a questa decisione perché si ama profondamente la vita e non se ne intravede più la dignità quando il corpo, martoriato dalla malattia, non ci permette di fare più niente», conclude Giorello.
«È in questo momento che la relazione medico-paziente diventa fondamentale. Ippocrate diceva che sono due alleati che combattono la stessa guerra. Per questo l’uno non deve essere sottomesso alle decisioni dell’altro.
È la grande lezione di Umberto Veronesi: il medico deve capire il dolore e rispettare le emozioni del malato quando capisce che la sofferenza ha tolto ogni senso alla sua vita».
LA MORTE DIRITTO?
Qualsiasi riflessione sulla morte deve tenere conto dalle possibilità che oggi la tecnica mette nelle mani dei medici», esordisce Corrado Viafora, professore di bioetica all’università di Padova e autore di A lezione di bioetica (Franco Angeli, 39,50 €).
«Oggi le potenzialità di intervento sono tali da consentire sia di rallentare sia di prolungare il processo con il quale si arriva a fine vita. Così la morte diventa oggetto di decisioni mediche che spesso impongono costi altissimi, materiali e psicologici». Morire, dunque, dovrebbe essere un diritto? «Dal punto di vista morale sì», risponde il professore.
«Esistono beni più grandi della vita, come la dignità, che spesso vengono violati da certi trattamenti prolungati. Questa domanda, però, ne contiene un’altra.
La vita ci appartiene? No, la vita è un dono. A noi spetta di decidere come gestirla responsabilmente. E questo è un compito che non dovremmo delegare a nessuno»
Articolo pubblicato sul n. 7 di Starbene in edicola dal 31/01/2017