Appendicite, non sempre serve la chirurgia

Nella maggior parte dei casi, l’appendicite può essere trattata con una terapia antibiotica, senza dover ricorrere all’intervento chirurgico



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Non sempre bisogna finire sotto i ferri in caso di appendicite. Anzi, nella maggior parte dei casi, la chirurgia è del tutto inutile. Una revisione della letteratura scientifica pubblicata sul Journal Of American Medical Association è arrivata alla conclusione che circa il 70 per cento delle appendiciti acute può essere curato con un semplice trattamento farmacologico, senza dover ricorrere alla sala operatoria. «È il caso delle appendiciti acute catarrali, quelle più semplici e diffuse, dove spesso è sufficiente seguire una terapia antibiotica ad ampio spettro, abbinata a una dieta leggera», spiega il dottor Euro Piancastelli, responsabile dell’Unità operativa di Chirurgia generale del San Pier Damiano Hospital di Faenza. «Al chirurgo invece si può arrivare nelle situazioni più complesse, in caso di frequenti recidive oppure quando l’appendice va in cancrena e rischia di provocare una peritonite localizzata o diffusa, con conseguenze potenzialmente gravissime».


Cos’è l’appendicite

L’appendicite è un’infiammazione della cosiddetta appendice vermiforme, un prolungamento dell’intestino crasso dalla forma tubolare (per questo detto “vermiforme”, cioè simile a un verme) che svolge una funzione linfatica alla pari delle tonsille. In pratica, fa parte di quel complesso sistema che ha il compito di difendere l’organismo dagli agenti esterni e dalle malattie, garantendo una corretta circolazione dei fluidi. «La sua asportazione non provoca nessuna conseguenza, al punto che questo organo viene considerato superfluo. Pensiamo a un’azienda formata da dieci dipendenti, di cui nove lavorano e il decimo distrugge l’operato degli altri: non ha senso mantenerlo in servizio. Allo stesso modo, se l’appendice vermiforme non svolge più la sua attività, può essere rimossa senza comportare problemi al resto dell’organismo».


Quali sono le cause

Il sintomo dell'infiammazione dell'appendicite è piuttosto caratteristico, perché si tratta di un dolore persistente nella fossa iliaca destra, cioè tra ombelico e osso dell’anca, a cui talvolta si possono aggiungere febbre, nausea e vomito. A provocare il problema possono essere molteplici cause. Nella maggior parte dei casi, i fattori scatenanti sono batteri come escherichia coli, streptococchi e stafilococchi, che normalmente vivono pacificamente nell’intestino (appendice compresa), ma in particolari condizioni possono moltiplicarsi in modo anomalo e causare infiammazione locale.

«Alla base può esserci una stipsi ostinata, ad esempio, che ostruisce questa cavità con del materiale organico causando il ristagno dei batteri e la loro proliferazione», racconta l’esperto. «Ma l’appendicite può essere favorita anche da patologie croniche intestinali, come la malattia di Crohn o la colite ulcerosa. C’è poi una fascia di età più colpita di altre, ovvero quella che va dagli 8 ai 30 anni, anche se può interessare tutti».


Come si fa la diagnosi

Per prima cosa, è necessario arrivare a una diagnosi certa. «Il dolore che interessa la fossa iliaca destra può essere dovuto a numerose altre condizioni cliniche, come malattie dell’apparato urinario, rottura di una cisti ovarica, calcoli della vescica, patologie della colecisti, diverticolite acuta, sindrome del colon irritabile o magari tiflite, un’infiammazione dell’intestino cieco.

Un medico esperto è in grado di analizzare la situazione palpando l’addome del paziente e verificando se il dolore viene avvertito in zone specifiche, come il punto di McBurney, situato sulla linea che congiunge idealmente l’ombelico alla spina iliaca antero-superiore destra». In aiuto possono venire alcuni esami del sangue che mostrino lo stato infiammatorio dell’organismo, come la conta dei globuli bianchi (neutrofili) e la proteina C reattiva (PCR), oltre a un’ecografia dell’addome e, nei casi più dubbi o complicati, una Tac con mezzo di contrasto. «L’esame ecografico può mostrare un’appendice ingrossata e circondata da un versamento sieroso che fa ipotizzare uno stato infiammatorio o addirittura la presenza di pus all’interno dell’intestino», commenta Piancastelli.


Cosa non fare mai

In attesa di una diagnosi, va evitato l’uso fai-da-te dei farmaci antidolorifici, che possono “mascherare” il dolore e impedire al medico di inquadrare correttamente il problema. «Quando avvertiamo sofferenza in quella specifica zona dell’addome, è opportuno sottoporci a una visita specialistica prima di ricorrere a qualunque altro rimedio, compresi clisteri evacuativi, del tutto inutili, e borse dell’acqua calda, che possono addirittura favorire la proliferazione batterica grazie alla temperatura elevata. Piuttosto, rivolgiamoci tempestivamente al medico di base oppure ricorriamo al più vicino pronto soccorso». E in termini di prevenzione? Seguiamo una dieta ricca di fibre per contrastare la stipsi, evitiamo l’eccesso di grassi, manteniamo sotto controllo il peso corporeo e pratichiamo una regolare attività fisica.


Interventi chirurgici mininvasivi

Qualora invece servisse la chirurgia, manteniamo la calma: oggi gli interventi richiedono nei casi più semplici un paio di giorni di ricovero ospedaliero e solitamente vengono eseguiti in laparoscopia: attraverso una piccola incisione a livello dell’ombelico si introduce una telecamera che permette di visionare su uno schermo l’intera cavità addominale, mentre altre due piccole incisioni di alcuni millimetri (a livello del pube) servono a introdurre gli strumenti chirurgici che consentono al chirurgo di compiere gli stessi gesti degli interventi a cielo aperto, riservati ormai alle situazioni più complesse.


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